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La Cassazione è stata oggi chiara sulla misteriosa sparizione di Roberta Ragusa, la donna della quale non si ha più notizia dalla notte del 13 gennaio 2012: il mancato ritrovamento del cadavere non esclude, secondo la Corte, l'eventuale colpevolezza del marito Antonio Logli, che pur essendo stato accusato di omicidio era stato prosciolto dal gup di Pisa Giuseppe Laghezza, con una decisione che aveva suscitato enormi perplessità. Le attuali attribuzioni di competenze della procedura penale in materia istruttoria confermano l'esistenza di gravi criticità, causa di pericolose lungaggini, poiché le decisioni di rinvio a giudizio o proscioglimento nei procedimenti per omicidio non possono essere lasciate a un singolo magistrato, non sempre in grado di valutare correttamente l'assoluta mancanza di elementi di colpevolezza.
La procura della repubblica aveva chiesto il rinvio a giudizio di Logli, sostenendo l'accusa in base a una serie di elementi indiziari univoci e convergenti, sorretti anche da testimonianze oculari come quella del giostraio Loris Gozzi, il quale ha sempre raccontato che nella notte della sparizione vide Logli in strada mentre spingeva violentemente una donna. Il racconto è risultato compatibile con quelli di altre persone che per motivi diversi passavano nella zona, nonché con riscontri di tabulati telefonici. Ma il gup non ha ritenuto attendibili i testimoni.
Sono passati più di quattro anni dall'oscura sparizione di Roberta Ragusa, che secondo l'accusa, respinta sistematicamente dall'uomo, sarebbe stata uccisa dal marito perché aveva scoperto la sua tresca con la segretaria e baby sitter dei figlioletti, che ha portato poi in casa per conviverci. La Procura sostiene che Antonio Logli avrebbe distrutto il cadavere, che per questi motivi non sarebbe stato ritrovato nonostante le lunghe e complesse ricerche dei carabinieri.
Un dibattimento in Corte d'Assise avrebbe permesso la formazione pubblica delle eventuali prove, per escludere o dichiarare la colpevolezza di Antonio Logli, possibilità che il gup aveva impedito con la sentenza di proscioglimento, impugnata dall'accusa, di cui la Cassazione ha accolto giustamente la tesi. Un altro giudice dell'udienza preliminare dovrà ora rivalutare se rinviare oppure no l'indagato a giudizio della Corte d'Assise.
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“Sì, vidi Yara vicino al cimitero con un uomo e lo riconosco in quest’aula”: così una casalinga, indicando l’imputato Massimo Bossetti, ha ribadito in aula la testimonianza che aveva reso già da tempo ai carabinieri sulla vita di Yara Gambirasio, la ragazza assassinata nel Bergamasco. Quanto emerso dal racconto è definito improbabile dai familiari di Yara e impossibile secondo la difesa di Bossetti, la quale sostiene che l’uomo nel giorno e nell’ora indicati si trovava ben lontano da quel luogo. Ecco perciò un altro rebus nel tormentato processo, con ripetuti momenti del dibattimento anche aspri per il serrato confronto fra le parti. La testimonianza sembra contraddire l’accusa, che l’ha voluta, avendo sempre sostenuto invece che Bossetti avesse preso di mira la ragazza senza che fra i due ci fosse anche un minimo rapporto di conoscenza, come confermerebbero peraltro gli accertamenti compiuti su telefoni cellulari e computer di entrambi.
La teste è Alma Azzolin e il cognome ricorda una scrittrice di nome Giliana, del 1947, che nel 2005 pubblicò il libro “I mari della luna: la metamorfosi dell’anima”, introdotto con le parole “come mettere un velo sulla brutalità della morte e poi sollevarlo per vederne la luce e coglierne la bellezza”. Angeli e viaggi astrali sono gli ingredienti delle fantastiche visioni raccontate nel libro.
Alma Azzolin, invece, restando sulla terra, sarebbe riuscita a fissare nella mente, per poi ricordarli a distanza di tempo, particolari rilevanti delle caratteristiche somatiche delle due persone, cioè gli occhi di Bossetti, nonché la protesi dentaria e la maglietta di Yara. Tutto, però, riguarda un episodio al quale avrebbe assistito di sfuggita, mentre era intenta a cercare un bagno per un bisogno improvviso.
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Stasera alle 20 Matteo Torrioli parla del libro "Yara, orrori e depistaggi" e intervista l'autore Salvo Bella a "Legge o giustizia" su Radio Cusano Campus (89.100 fm a Roma e nel Lazio, streaming su www.radiocusanocampus.it/podcast/?prog=695).
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Trent'anni di carcere: questa è la condanna che il giudice Roberto Amerio ha inflitto ad Asti in primo grado a Michele Buoninconti per l'uccisione della moglie Elena Ceste e l'occultamento del suo cadavere. Il tribunale non ha avuto dunque dubbi sulla colpevolezza del vigile del fuoco, che fino all’ultimo ha respinto le accuse, sintetizzando la sua difesa in cinque fogli letti in aula poco prima della sentenza: "Signor giudice - ha detto - io mi trovo davanti a lei senza un motivo vero, non c'è alcuna certezza che mia moglie sia stata uccisa e la procura non può provarlo, né ora, né mai, semplicemente perché non è accaduto. Ci vogliono le prove per condannare un uomo e la procura non le ha perché non esistono, non si può trasformare a piacimento un innocente in un colpevole, tra l'altro, di un omicidio che non c'è stato".
La sentenza ha accolto invece pienamente le conclusioni del pm Laura Deodato: aveva chiesto l’ergastolo, ridotto a 30 anni per il rito abbreviato.
Elena Ceste aveva 37 anni quando sparì dalla sua casa di Costigliole d’Asti la mattina del 24 gennaio 2014. Solo il 18 ottobre il suo cadavere fu scoperto a poche centinaia di metri dall’abitazione, nascosto in un canale. Il marito Michele Buoninconti aveva indirizzato sospetti su alcuni conoscenti e raccontato che la donna soffriva negli ultimi tempi di allucinazioni, convinta di essere perseguitata. Il 29 gennaio 2015 l’uomo è stato arrestato dai carabinieri a conclusione di laboriose indagini, condotte con scrupolo: gli accertamenti sul suo telefono hanno rivelato che si trovava nei pressi del canale poco dopo la sparizione della moglie e che sui suoi abiti erano rimaste tracce della fanghiglia schizzata al momento di scaraventare il corpo nel fossato. L’accusa ha sostenuto che l’uomo ha strangolato la moglie “avendo agito con premeditazione rappresentata dall’avere programmato e pianificato il delitto con perdurante volontà omicida, frutto di ferma e irrevocabile risoluzione criminosa”.
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Mandato via da Roma, in quattro e quattr’otto e senza complimenti, il sindaco Ignazio Marino, può riaffiorare la speranza di una riscossa per la Capitale? Il Pd ha cercato inutilmente di dare a intendere che il primo cittadino fosse la causa di tutti i mali e che sostituirlo con un rispettabilissimo prefetto possa essere il toccasana; ma continua a non muovere un dito per sbattere fuori i delinquenti che si annidano indisturbati nei partiti, dal parlamento alle amministrazioni locali.
Si gridava allo scandalo quando molti anni fa Umberto Bossi definiva Roma ladrona: lo faceva con la sfacciata sicumera che fosse tutto limpido invece in Lombardia, dove pure si rubava senza ritegno e le associazioni mafiose estendevano i gangli nelle pubbliche amministrazioni; eppure Bossi nel dire Roma non sbagliava a puntare il dito su un bubbone colossale di malaffare che tutti si sono ostinati a negare come tutti hanno negato per decenni che la mafia a Milano esisteva. Nascondere il male è un principio del malaffare, negarne l’esistenza è una prassi che fa comodo a chi sta al potere, per non allarmare l’opinione pubblica e mantenerne o conquistarne il consenso.
“L’atteggiamento del Pd, del primo partito d’Italia e del governo verso Roma mi terrorizza. Hanno lasciato che la nave madre andasse allo sbando girandosi dall’altra parte” ha detto a “Il fatto quotidiano” l’attore Claudio Amendola. Non è stato un solo partito a chiudere gli occhi, ma il caso Marino è scandaloso soprattutto perché il sindaco di Roma era stato scelto proprio dal Pd, che gli aveva dato assessori e poi anche una sorta di benedizione dopo il colpo di “mafia Capitale”. Questa vicenda giudiziaria e politica ha messo a nudo il fango nel Pd e in altri partiti, ai quali non poteva sfuggire che da quel momento avrebbero avuto vita difficile i malfattori abituati a guazzare allegramente fra appalti e tangenti, un mondo di potere che Ignazio Marino aveva osato in qualche modo sfidare, incurante delle conseguenze alle quali poi sarebbe andato, ed è andato, incontro. Ancora più scandaloso è stato, perciò, il siluramento di Marino da parte del Pd.
Ai problemi della corruzione è direttamente legato lo sfascio della Capitale, che ha superato qualsiasi livello di sopportabilità, e la speranza di un riscatto può venire solamente dalle scelte coraggiose che i romani faranno alle prossime elezioni.
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- Scritto da Salvo Bella
Il richiamo dell’on. Angelino Alfano ai Comuni per far lavorare gratis gli immigrati, in base a una sua sorprendente circolare dell’1 dicembre 2014, sta suscitando aspre e giustificate polemiche. Pretendere che alcuno presti senza compenso la propria attività “significherebbe - secondo Panorama - violare una norma effettiva, reale, quella che prevede che qualsiasi lavoro subordinato debba essere retribuito”. Non vengono risparmiate schermaglie fra il leader della Lega Matteo Salvini (che definisce il ministro dell’Interno “da scafista a schiavista”) e lo stesso Alfano (che replica al primo apostrofandolo “ignorante, fuoricorso”).
I centri accoglienza continuano a essere intasati con varie giustificazioni prevalentemente in Sicilia, dove sugli sbarchi degli immigrati si alimentano mangiatoie sulle quali sono in corso procedimenti da parte della magistratura.
Poveri diseredati, da Pavia a Ragusa, continuano a essere utilizzati come schiavi nelle campagne, senza che alcuno se ne occupi seriamente e con effetti disastrosi sugli operai italiani in cerca disperatamente di lavoro. L’on. Alfano dovrebbe disporre una volta per tutte con serietà perché siano stroncati gli schiavisti, emettendo le opportune circolari che impegnino in tal senso tutte le forze dell’ordine. Faccia lavorare piuttosto il personale del Ministero, che commette continuamente reati omettendo di rispondere entro i termini di legge ai ricorsi gerarchici dei cittadini, invece di legittimare uno sfruttamento degli immigrati non solo da parte delle cosche ma anche da parte della pubblica amministrazione.
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Massimo Bossetti è l’assassino di Yara Gambirasio anche per il gup di Bergamo Ciro Iacomino, che ha deciso oggi rapidamente il rinvio a giudizio in una udienza preliminare alla quale era presente lo stesso indagato. Bossetti dovrà comparire il 3 luglio davanti alla Corte d’Assise per rispondere di omicidio aggravato dalle sevizie e crudeltà, dalla minorata difesa della vittima, e di calunnia, come chiesto dall’accusa, sostenuta dal pm Letizia Ruggeri.
Il giudice ha sbarazzato subito il campo dalle eccezioni e richieste sollevate dai difensori di Bossetti: la nullità del capo di imputazione in quanto presentava un doppio luogo di commissione del delitto, Brembate di Sopra e Chignolo d'Isola; e la nullità o l'inutilizzabilità degli accertamenti biologici sulle tracce di dna rinvenute sugli indumenti di Yara e attribuite all’indagato, perché compiuti dal Ris con lo strumento della delega di indagine e non, invece, con l'avviso alle parti.
La celerità della decisione e della data per il prossimo processo appaiono da un lato encomiabili in un Paese la cui giustizia è estremamente lenta; ma da un altro lato suscita qualche perplessità per il diniego di accertamenti più approfonditi sulle controversie scientifiche insorte a proposito di quella che viene ritenuta dall’accusa la “prova regina” contro il muratore di Mapello, cioè il dna. Il giudice dell’udienza preliminare, peraltro, era chiamato in questa fase a giudicare che non ci fossero elementi tali da potere escludere la colpevolezza, che dovrà poi emergere eventualmente al dibattimento in Corte d’Assise.
Bossetti, com’è noto, continua a protestarsi dal carcere innocente e sono state respinte tutte le sue richieste di remissione in libertà o assegnazione ai domiciliari.
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Claudio Giardiello, l'imprenditore che giovedì ha compiuto la strage al tribunale di Milano, era un uomo disperato: passando da una disavventura economica all'altra, aveva visto disgregarsi la sua famiglia, fallire la sua più importante impresa, sequestrare i suoi beni. Non aveva più nulla da perdere. Quando si determinano situazioni del genere è possibile che saltino anche gli equilibri mentali e che si diventi pericolosi per sé e per gli altri. Ma, mentre si discute sconcertati e allarmati di come sia stato possibile che un uomo entrasse armato al tribunale di Milano senza che alcuno se ne accorgesse, spargesse morte e si allontanasse quasi tranquillamente, si scopre che la sicurezza agli ingressi del palazzo di giustizia di Milano è affidata, grazie a un appalto milionario, a vigilantes disarmati, il cui compito potrebbe essere svolto con costi assai inferiori da semplici portieri.
Chi dovrebbe fermare i malintenzionati è disarmato, ma si lascia invece con grande leggerezza che un uomo in dissesto finanziario e psicologico possa continuare a detenere e portare legalmente un'arma, sebbene per uso di tiro a segno, e addirittura una pistola calibro 9,65 mm, in un modello che, tanto per capire, solo da pochi anni è ritenuto arma comune e non da guerra, pur essendo identica a quella in dotazione in Italia a carabinieri e polizia. Secondo quanto riportano alcuni quotidiani, proprio i carabinieri avevano consigliato di rivedere l’assegnazione a Claudio Giardiello dei permessi rilasciati dal 2011, che nessuno ha mai pensato tuttavia di ritirargli: il parere, peraltro non vincolante, fu infatti sorprendentemente ignorato, non si sa in base a quali valutazioni; i giornali scrivono da parte della prefettura, ma verosilmente dalla questura, che ha la competenza in materia di armi per uso sportivo.
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Scheletri e folle amore, ossessione e delitto non sono gli unici elementi del terrificante caso di Marco Mariolini, l’antiquario di Pisogne, in provincia di Brescia, che il 14 luglio 1998 uccise a Intra con ventidue coltellate, sul Lago Maggiore, la studentessa Monica Calò di Domodossola: lo sostiene Marco Marra nella puntata della trasmissione “Stelle nere” dedicata alla vicenda criminale, andata in onda sabato su RaiTre.
Il caso è entrato nella storia della criminalità come quello del “cacciatore di anoressiche”, dal titolo del libro scritto da Mariolini e pubblicato nel 1997 da Gruppo Edicom: l’antiquario vi confessava una serie di aggressioni compiute in due decenni ai danni di donne dai 18 agli 80 anni, tutte magrissime, e vi annunciava un delitto, commesso poi puntualmente l’anno dopo. L’uomo è stato condannato il 30 marzo 2000 a trent’anni di reclusione, col rito abbreviato, dalla Corte d’Assise di Novara. Al caso del cacciatore di anoressiche sono state dedicate nel tempo varie trasmissioni televisive e dal libro è stato tratto da Matteo Garrone il film “Primo amore”, premiato al Festival internazionale di Berlino.
Marco Mariolini è stato sempre ritenuto un perverso, spinto da una irrefrenabile ossessione. Ma ora Marco Marra nella sua trasmissione “Stelle nere”, che offre una puntualissima ed efficace ricostruzione, prendendo spunto dall’intervista televisiva di Franca Leosini all’assassino (andata in onda su RaiTre l’11 novembre 2001 a “Storie maledette”) sostiene che l’ex antiquario era invece un povero, miserabile narcisista, la cui vera ossessione era per se stesso. Nell’intervista Mariolini si definì il “primo, unico esemplare esistente di anoressofilo”, manifestando per il delitto “un compiacimento ineliminabile”.
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Due uomini incappucciati hanno aggredito ieri nel Bergamasco la sorella di Massimo Bossetti, Laura Letizia, mentre si trovava in casa della madre. Alla donna, selvaggiamente picchiata e minacciata con un coltello, sono stati riscontrati in ospedale un trauma cranico, fratture ed ecchimosi. L’accaduto si aggiunge a una serie di altri episodi oscuri subìti da familiari del presunto assassino di Yara Gambirasio.
Massimo Bossetti si trova com’è noto in carcere con l’accusa di avere rapito e ucciso la ragazza di Brembate di Sopra, ma ha sempre continuato a respingere ogni accusa. Apparterrebbero a lui tracce di dna rilevato, dopo il ritrovamento del cadavere, sugli slip di Yara, fatto considerato dall’accusa una prova granitica, ma messo fortemente in discussione dal difensore dall’indagato, l’avv. Claudio Salvagni.
Laura Letizia Bossetti è stata minacciata e aggredita altre volte sin dall’anno scorso, ma le indagini non sono riuscite a far luce sugli inquietanti episodi.
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- Scritto da IL DELITTO
Commercianti, ex carabinieri e poliziotti, cronisti e molti cittadini non ne possono più di subire aggressioni e minacce e di essere lasciati indifesi dallo Stato, che attraverso commissariati di polizia e prefetture arrivano a disarmare le vittime, ritenute spesso "senza pericolo" fin quando non vengono assassinate. Da Torino a Catania, gioiellieri o frmacisti sono costretti a lavorare blindati; e sono innumerevoli le intimidazioni a giornalisti per tentare di mettere il bavaglio all'informazione, impegnata oggi non solo sul fronte della criminalità tradizionale ma anche su quello, non meno grave, della corruzione e del terrorismo.
Ha suscitato comprensibile sdegno l'incriminazione, per eccesso colposo, del benzinaio Graziano Stacchio di Vicenza, che per difendere la propria incolumità e quella di un gioielliere durante un tentativo di rapina ha sparato verso il basso uccidendo un malvivente. C'erano tutte le condizioni per potere procedere, con ragionevolezza, al proscioglimento immediato del cittadino, che aveva agito in stato di necessità, impedendo che un reato in corso venisse portato a più estreme conseguenze.
Il risultato è stato che il gioielliere Roberto Zancan, che in passato era stato preso di mira dai criminali ma era rimasto del tutto indifeso, ha dovuto chiudere per sempre amaramente bottega.
Almeno trenta imprenditori su cento sono, secondo Confcommercio, minacciati nell'area del capoluogo lombardo, ma il numero può ritenersi assai pù elevato tenendo conto pure dei casi che non vengono denunciati per paura e col ragionamento "tanto non mi difende nessuno". Prese di posizione sono giunte tempestivamente da parlamentari della Lega, ma ad esse se ne dovrebbero aggiungere altre più dure.
Anche i giornalisti che si occupano di cronaca nera non hanno adeguata tutela da parte dello Stato. La classifica annuale di Reporter Sans Frontières sulla libertà di stampa, resa nota da Ossigeno per l'Informazione, colloca l'Italia al settantatreesimo posto (prima era al quarantanovesimo) sui 180 Paesi presi in considerazione per le intimidazioni subite da cronisti.
In questa materia delicatissima sono innumerevoli i ricorsi contro le Prefetture, che negano il porto d'armi per la difesa personale anche a chi, avendolo già, non ne ha abusato, persino ad ex poliziotti che fino al giorno prima di andare in pensione hanno combattuto la malavita in zone ad alto insediamento criminale di tipo mafioso, ndranghetista e camorrista. A Legnano un alto funzionario di polizia è arrivato a far negare paradossalmente il titolo perché il giornalista offre di sè "una immagine di persona forte e determinata che non si fa intimidire", poiché ricevuto per posta un proiettile con un biglietto di minacce l'ha consegnato ai carabinieri invece di telefonare al 113..
La spending revue ha portato a un depauperamento delle forze dell'ordine e il "riordino" del settore, oltre ad aggravare il lavoro di carabinieri e agenti di polizia, già duramente impegnati a difesa della legalità, ha degli effetti non indifferenti sul territorio. La situazione della sicurezza è sempre più a rischio proporzionalmente con l'invasione ormai incontrollata di extracomunitari, che finiscono inglobati dalla malavita o comunque delinquono per necessità di sopravvivenza. La diffusione dell'islam estremista e la recente strage terroristica al giornale francese Charlie Hebdo - e altri fatti successivi -hanno evidenziato addirittura che nessun giornalista può essere ritenuto al sicuro se semplicemente esprime nei suoi scritti delle considerazioni su Maometto; e che il rischio gli può derivare semplicemente perché giornalista, persino da parte dell'insospettabile straniero che vive nello stesso condominio.
L'esigenza di contenere la diffusione delle armi è ovviamente condivisibile, ma non può confliggere col diritto di potere difendere il bene prezioso della vita da chi lo insidia, colpendo chi per la propria attività costituisce obiettivo della malavita. Gli organismi delle categorie interessate devono efficacemente intervenire, perciò, perché il ministro degli Interni Angelino Alfano prenda atto che molti cittadini sono esposti permanentemente e concretamente a rischi gravi per la propria incolumità solo in dipendenza della professione o dell'attività svolte, senza dover attendere che tentino di ammazzarli; dia un segno forte contro chi delinque e giornalmente cerca di condizionare i commerci e l'informazione, dando alle Prefetture opportune disposizioni, in modo che a ben determinate categorie di cittadini di assoluta buona condotta sia concesso, senza arzigogolamenti astrusi, il diritto di difendersi.
Gaetano Alemanni
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Il commissariato di polizia di Sanremo ha trattenuto per sei ore, fino alle tre di notte, l’autore televisivo e regista Giuseppe Longinotti, dopo che era riuscito ad entrare al Festival canoro spacciandosi per il fantomatico Senatore Codazzo, il personaggio inventato per alcuni esilaranti servizi di successo della trasmissione televisiva “La gabbia” condotta ogni domenica sera da Gianluigi Paragone su La7.
Longinotti dovrà rispondere di usurpazione di titoli e di onori, reato previsto dall’art. 498 del codice penale. L’obiettivo di voler tutelare a ogni costo gli interessi della casta politica, di cui Longinotti denuncia all’opinione pubblica e mette in ridicolo i privilegi, è emerso nella vicenda in modo sconcertante: l’autore infatti, dopo essere stato riconosciuto, vista peraltro la sua notorietà, e dopo aver collaborato pienamente per la sua identificazione è stato inspiegabilmente perquisito e infine privato della libertà personale con l’accompagnamento in ufficio, senza che ve ne fosse il bisogno.
- Rischio cancerogeno nell'acqua che beviamo
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