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Siamo all’evidenza assoluta dell’impatto cancerogeno dell’amianto nelle tubazioni sulla popolazione, perché i soggetti esposti assorbono questo amianto sia per via inalatoria che per via gastro-enterica: lo afferma Vito Totire, presidente dell’Associazione esposti amianto e rischi per la salute, in un post pubblicato sul blog di Beppe Grillo.
Il rischio riguarderebbe in Italia circa centomila chilometri di tubazioni, di cui 1650 solo nell’area di Bologna e del suo hinterland: una dimensione spaventosa. Solo a Carpi sarebbero state rilevate centosessantamila fibre di amianto per litro d’acqua, ma con un metodo di analisi che sottostima fortemente i pericoli: il 99% dei campionamenti sono stati infatti eseguiti in microscopia elettronica a scansione, alcuni addirittura in microscopia ottica, metodo assai riduttivo rispetto a quellostatunitense, che prevede invece l’utilizzo della microscopia elettronica a trasmissione e anche un’azione di scuotimento forte del campione prima dell’analisi.
Toti sollecita un intervento di bonifica radicale urgente per escludere totalmente le sostanze cancerogene dal ciclo produttivo al ciclo alimentare.
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Le indagini sulla misteriosa morte di Elena Ceste, 37 anni, sono pervenute a una svolta con l'arresto del marito Michele Buoninconti, eseguito dai carabinieri di Asti su provvedimento del gip Giacomo Marson con le accuse di omicidio volontario premeditato e occultamento di cadavere, avvenuto, dicono gli inquirenti, lo stesso giorno della scomparsa della donna. L'uomo avrebbe commesso il delitto perché ossessionato dalla gelosia.
La casalinga era sparita da casa il 24 gennaio 2014 a Costigliole d'Asti e il suo corpo è stato poi ritrovato casualmente il 18 ottobre in un canale di scolo poco distante dalla sua abitazione. Il marito, un vigile del fuoco, ha sempre sostenuto che Elena Ceste gli aveva confidato nella notte di ritenersi perseguitata da sconosciuti; in mattinata, dopo avere accompagnato i figli a scuola, ne aveva scoperto gli abiti abbandonati nel cortile di casa. Cercando di indirizzare le indagini verso presunti molestatori della donna, l'uomo ha sempre più attirato su di sé i sospetti degli inquirenti, con comportamenti contraddittori. Gli accertamenti medico legali sui resti del cadavere, rinvenuto in avanzata decomposizione, non hanno permesso di stabilire le esatte cause del decesso, ma hanno appurato che la donna non è morta annegata e nemmeno a causa del freddo e che il corpo è stato trasportato nel canale quand'era ormai privo di vita.
A far commettere a Michele Buoninconti l'omicidio sarebbe stata la gelosia: l'uomo, infatti, era ossessionato dai contatti che Elena manteneva per telefono e su Facebook con amici ed ex compagni di scuola.
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Un proiettile non può costituire pericolo se chi lo riceve un venerdì per posta con un biglietto di minacce non chiama subito il 113, ma lo consegna il lunedì con una denuncia ai carabinieri del luogo dov’è accaduto il fatto: non si tratta di una massima giurisprudenziale, ma lo sostiene a Legnano un alto funzionario di polizia in atti diretti al Prefetto di Milano, a sviluppo di una questione insorta dopo che lo stesso funzionario, in relazione con un altro episodio riguardante questa rivista e la casa editrice Gruppo Edicom, aveva affermato falsamente che le minacce riguardanti il mio libro “Yara, orrori e depistaggi” erano scaturite da un mio comportamento professionale deontologicamente scorretto, in quanto, quale direttore del “Giornale di Bergamo”, avrei utilizzato per altri scopi informazioni che secondo un “benefattore” dovevano servire per identificare gli assassini della povera ragazza di Brembate di Sopra e per questo avrebbe messo a mia disposizione ventimila euro. Ma col “Giornale di Bergamo” non ho avuto mai rapporti e tanto meno con il “benefattore”, come si può leggere nell’articolo “Da Paolo Borsellino a Yara Gambirasio a Legnano”.
Dopo la presentazione di un esposto, il 22 gennaio il funzionario si è tardivamente scusato nel suo ufficio, dove mi aveva invitato con una lettera inviata a un indirizzo “curiosamente” sbagliato e pervenutami solo per caso: “Ho sbagliato, ma...”. Quel “ma” ha introdotto l’annuncio di avere comunque espresso giudizi negativi, con alcuni bizantinismi; uno, in particolare, è quello attinente la mancanza di pericolo nella ricezione di altre minacce, di cui una accompagnata da un proiettile, perché consegnato ai carabinieri anziché a lui con preavviso al 113, cioè al soccorso pubblico di emergenza.
Salvo Bella
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Sapete che cosa sarebbero le minacce per il mio libro “Yara, orrori e depistaggi” uscito a febbraio nella collana di libri connessa con questa rivista? Prima di leggere la risposta vale la pena di premettere che mi duole dovere scrivere una nota personale su una vicenda che mi riguarda anche direttamente; ma lo faccio comunque perché c’è un interesse pubblico a conoscere che cosa può accadere in taluni uffici dello Stato a qualsiasi cittadino alle prese con i meandri oscuri della burocrazia, nei quali non è agevole metter naso nemmeno per sapere che cosa viene propalato sul proprio conto.
Allora, che cosa sarebbero le minacce rivoltemi nei primi mesi dell’anno per la mia inchiesta giornalistica raccolta nel libro su Yara? Solo la rivendicazione di una persona che avrebbe da lamentarsi per la mia “deontologia professionale”, avendo io utilizzato per il libro notizie che l’autore delle minacce avrebbe in qualche modo affidato proprio a me per motivi contrari al suo intento di benefattore. Discorsi di bar, si penserà, anche sotto l’effetto di qualche birra in più; ma udite udite: ad affermarlo dall’alto del suo ruolo, e con confacente sicumera, è stato invece a Legnano un alto funzionario di polizia; e non l’ha fatto per niente in un bar ma in una cosiddetta informativa del giorno 8 settembre 2014 alla Questura di Milano e in ultimo diretta al Signor Prefetto.
Una domanda inquietante al Ministro degli Interni Angelino Alfano
Ma sentite sentite. Scrive l’alto funzionario che l’autore delle minacce “ha offerto tramite il giornale del quale il richiedente è direttore, una ricompensa a chiunque potesse fornire informazioni sul delitto di Yara Gambirasio”. Ciò risulterebbe persino da quanto “asserito nelle mail scambiate”.
Ora, non solo in tale email risulta ben altra cosa, ma anche dagli atti documentali che il pubblico ufficiale aveva in esame, cioè che l’autore delle minacce aveva messo a disposizione ventimila euro affidandoli non a me e nemmeno a “Il delitto”, bensì - e si tratta di un fatto notorio, essendone stata data ampiamente notizia dagli organi di informazione - al quotidiano “Giornale di Bergamo” insieme con l’incarico al suo direttore Carlo Quiri di raccogliere eventuali informazioni sul delitto attraverso un’utenza telefonica attivata espressamente da quel giornale.
Un così grave travisamento di fatti (falsità ideologica del pubblico ufficiale), con affermazioni confusionarie e inveritiere, fa temere che il funzionario sia stato spinto da interessi diversi da quelli da cui per legge doveva lasciarsi guidare, ond’è che si scorge un eccesso di potere consistente nell'uso di un tipo legalmente scorretto di valutazione, mettendo scientemente in cattiva luce le qualità personali e professionali mie nonché di questa rivista dinanzi ad altri organismi dello Stato. Si può anche cogliere una sorta di solidarietà verso altri funzionari di polizia dei quali nel mio libro in questione sono evidenziati presunti depistaggi nelle indagini sul delitto Gambirasio e persino in quelle sull’uccisione del giudice Paolo Borsellino.
Da Palermo, a Bergamo a Legnano, la tecnica del depistaggio fa scuola in polizia. “Non c’è dunque da meravigliarsi - ho scritto nel libro - se in Italia le indagini possono essere manipolate da chi dovrebbe condurle nel rispetto assoluto della verità”.
Il fatto che in un ufficio di notevole e sensibile importanza, presidio di democrazia, correttezza, trasparenza e legalità possa operare un funzionario così distratto – e persino pervicace da non scusarsi - è davvero preoccupante. Che cosa l’ha spinto, dunque, ad affermare fatti contrari al vero? Sarebbe opportuno che il Ministro degli Interni on Angelino Alfano curi di avere una risposta a questa inquietante domanda.
Salvo Bella
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La sera del 5 gennaio 1984 mi fu sottratta la cronaca sull’uccisione di Giuseppe Fava, per depistare lanciando la falsa tesi passionale sul delitto. Sono passati 31 anni e sono finiti dimenticati gli atti con molti elementi importanti sui quali avevano fatto luce i carabinieri con indagini che vertevano su fiancheggiatori e veri mandanti, rimasti poi ignoti; ma chi sa continua ad avere paura e si continua a cogliere segnali sibillini perché stia muto chiunque possa avere ancora qualcosa da dire.
Fra le 21 e le 22 i cronisti di nera smettevano di lavorare e andavano via dal giornale, lasciando tutto in carico a un solo redattore che da quel momento assumeva la responsabilità per tutti i fatti urgenti, ininterrottamente fino alle 14 dell’indomani. In base ai turni prestabiliti, il 5 gennaio 1984 avevo io quel compito di restare per la notte in sede e l’organizzazione del lavoro richiedeva che uno dei colleghi smontanti, trovandomi io in quel momento inviato, si fermasse fino al mio rientro. Quella sera la procedura fu osservata, ma solo apparentemente.
Catania e provincia erano scosse da innumerevoli omicidi che, a tutte le ore, mi portavano da un luogo all’altro per il mio lavoro di cronista sulla breccia. Rientrai alle 21,30 al giornale dal sopralluogo per un duplice omicidio fra Adrano e Bronte. Mi stavo occupando già di alcuni delitti commessi nella giornata, quando attraverso una telefonata di controllo alla centrale operativa della questura appresi che c’era appena stata una sparatoria davanti al Teatro Verga, da dove un ferito stava per essere trasportato all’ospedale Garibaldi.
La stranezza fu che ad attendere il mio rientro non trovai uno dei colleghi professionisti in servizio, ma un pubblicista – che pure lavorava da cronista – da mesi assente in convalescenza per avere subito degli interventi chirurgici al cuore. Era passato dalla redazione “in vista del prossimo rientro”, aveva invitato i colleghi smontanti ad andarsene tranquillamente, mi diede la disponibilità a occuparsi della sparatoria e si avviò. Subito dopo appresi che i colpi di pistola davanti al teatro erano stati esplosi contro Giuseppe Fava, morto durante il trasporto al pronto soccorso.
Mentre dalla mia Olivetti uscivano - inzuppati di lacrime - i fogli dei servizi sugli altri delitti, a notte il direttore-editore impartiva disposizioni al collega appena rientrato: un articolo breve, “data l’ora”, basso in prima pagina, nel quale si evidenziasse che Fava era stato ucciso forse per questioni di donne. Così mi trovai esautorato.
Alla proprietà era chiaro che a me non avrebbe potuto chiedere (“peccato questo suo carattere”) manipolazione alcuna, su tutto e in particolar modo sull’uccisione di Giuseppe Fava: non solo perché avevo lavorato con lui per molti anni ed era stato il mio primo maestro, ma innanzitutto perché il bavaglio al giornalismo libero era stato ampiamente annunciato dalla mafia, la prima ad averne avuto contezza era stata proprio la proprietà del giornale e si temeva da giorni un omicidio eclatante.
Salvo Bella
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L'orrenda uccisione del piccolo Loris Stival a Santa Croce Camerina, nel Ragusano, suscita grande orrore e sgomento, sentimenti che l'atrocità del fatto obbliga una società civile a manifestare. Il candore stesso di un bambino suscita però anche quei profondi sentimenti di pietà che suggeriscono ancora una volta una riflessione sulla violenza e sul dolore dell'infanzia indifesa; suggeriscono anche il silenzio per rispettare padre e madre della piccola vittima, sottoposti invece a radiografie scellerate che non servono ad alcuno se non a soddisfare la morbosità di gente malata e le esigenze di spettacolarizzazione di una informazione che va diventando sempre più incompatibile con la professione di giornalista.
Altre volte è stato fatto scempio del diritto alla riservatezza, scavando impropriamente sulla vita di donne innocenti che non hanno commesso alcunché, com'è accaduto alla moglie di Massimo Giuseppe Bossetti, accusato di avere ucciso la povera Yara Gambirasio. In quel caso è dovuto intervenire anche il Garante della privacy con un'ordinanza per porre un freno a sconsiderati linciaggi.
Si comprende ora l'esigenza degli inquirenti, a Ragusa, di scavare fra telecamere e persino in cassonetti della spazzatura, come stanno facendo con acume e professionalità, per cercare di identificare un assassino; ma le analisi delle "cronache" sulla base di sole congetture anticipano colpevoli e processi, che non possono essere celebrati sugli schermi delle tv e sui giornali, soprattutto prima che le indagini siano state concluse. Senza pietà e silenzio si uccide per la seconda volta Loris.
Salvo Bella
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“Il tema della violenza di genere sarà una priorità del semestre di presidenza europeo. Questo governo è dalla parte delle donne”: l’aveva detto il 7 agosto il ministro degli Interni Angelino Alfano in una conferenza stampa per illustrare i risultati, secondo lui ottimi, ottenuti a un anno dalla legge sul contrasto alla violenza di genere (agosto 2013) e a cinque dalla legge sullo stalking (aprile 2009). La notizia si può leggere tuttora sul sito del ministero al link
peccato però che era solo uno spot, perché il semestre (quello italiano da luglio sino alla fine del 2014) non è altro che un ciclo di coordinamento delle politiche economiche e di bilancio nell'ambito dell’Unione Europea, che niente ha a che vedere con la criminalità e la violenza contro le donne, per cui non meraviglia che il ministro s’è scordato rapidamente dell’impegno preso tre mesi fa.
Secondo uno studio del ministero della Giustizia, Direzione generale di statistica, la durata media di un procedimento per stalking è di 587 giorni dalla data di prima iscrizione nel registro delle notizie di reato alla sentenza di primo grado; ed è di 711 giorni per i procedimenti definiti con rito ordinario anziché abbreviato o immediato. Si tratta di tempi più rapidi di quelli impiegati per i procedimenti penali riguardanti altri tipi di reati; ma se questo può essere considerato effetto di una sensibilità rilevante di polizia giudiziaria e magistratura, vero è anche che la maggior parte dei cosiddetti femminicidi, come rivelano attualmente le cronache, è preceduta da reiterate denunce di lesioni e minacce, sulle quali non s’è fatto in tempo a intervenire in modo efficace allo scopo di evitare le conseguenze più estreme.
Le Procure della Repubblica hanno dipartimenti o gruppi di lavoro che si occupano di delitti contro la famiglia, di pornografia e pedopornografia anche on-line. Ciò permetterebbe in teoria una trattazione spedita dei procedimenti in questione, che dopo una prima fase rapida finiscono però sommersi nel passaggio degli atti ai giudici per le indagini preliminari, i cui uffici non si occupano dei fascicoli selettivamente per tipi di reati. In altre parole, le modifiche intervenute nelle norme sullo stalking non hanno dato alla magistratura gli strumenti necessari per intervenire nei tempi che le situazioni richiederebbero e dunque con efficacia.
I dati più recenti sui femminicidi parlano di delitti in aumento e di una vittima ogni tre giorni; ma a quelli noti si aggiungono anche molti casi di donne sparite misteriosamente nel nulla o uccise da assassini che rimangono ignoti.
Salvo Bella
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Il presidente del Consiglio Matteo Renzi dice che va bene per lui prendere decisioni sulle riforme insieme con Berlusconi e con Verdini, il primo condannato e l’altro a giudizio per reati, ma non con i sindacati: “Decido io”.
I passaggi quotidiani di Renzi da un salotto televisivo all’altro stanno diventando una melassa, nel senso che siamo all’avanspettacolo dietro il quale si cerca di nascondere drammi; e intanto la politica non si taglia nemmeno un soldo e non la smette con le ruberie, i poliziotti comandati da funzionari per niente equilibrati prendono a manganellate altri lavoratori che protestano in piazza perché perdono il lavoro e il governo non fa nulla, anzi si occupa di andare a eliminare gli ultimi residui di diritti con la scusa di creare nuovi posti di lavoro; lo Stato si assolve dai suoi crimini come è accaduto per il povero Stefano Cucchi, torturato fino a morte mentr'era detenuto.
Aumentano in Italia disoccupazione e miseria, ma aumentano di pari passo anche i reati: perché molta gente alla disperazione si trova costretta a cercare qualche lira in qualunque modo e rischia di ammazzare o di finire ammazzata; il controllo del territorio non c’è più da tempo perché le forze dell’ordine non hanno nemmeno la possibilità di consumare benzina; gente disperata si toglie la vita o compie stragi per farla finita.
Cesare Romiti, che è stato in Italia uno dei più alti dirigenti di azienda, ha detto ieri durante la trasmissione “di Martedì” a La7 che non si sta facendo nulla per evitare il disastro e che “l'Italia non merita di finire al buio”. Ma Romiti, come tanti altri, è per Renzi ormai roba da rottamare; non ha senso ascoltarne qualche parola, perché è meglio andare in tv in maniche di camicia a fare teatrino.
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Il ritrovamento del cadavere di Elena Ceste ha aggravato, come aveva sostenuto ieri il delitto.it, i sospetti a carico del marito Michele Buoninconti, che è indagato adesso per omicidio volontario e occultamento di cadavere. L’uomo rischia l’arresto per pericolo di inquinamento delle prove: avrebbe infatti esercitato pressioni sui figlioletti, con tono minaccioso (“Volete perdere anche me oltre la mamma?”), per non rivelare agli inquirenti che c’erano liti fra lui e la donna.
Dai suoi racconti emerge pacificamente che Michele Buoninconti sospettava, a torto o a ragione, che la moglie l’avesse tradito; ed è emerso pure con chiarezza che Elena, prima della sparizione, aveva confidato, al parroco e ad amiche di temere qualcuno, senza rivelare tuttavia chi fosse. “Sono – diceva – sulla bocca di tutti”, ma in paese nessuno era a conoscenza di fatti discutibili che riguardassero la donna, quasi che a ingenerare in lei ansia, tormenti e preoccupazioni gravi fosse stato per telefono qualche sconosciuto, mosso solo dall’intento di metterla in crisi e renderla dunque succube del marito. Ma chi può essere stato?
Sin dal momento della sparizione, avvenuta a Costigliole d’Asti il 24 gennaio, Michele Buoninconti aveva attirato su di sé sospetti con un racconto che sembra di fantascienza: avrebbe accompagnato infatti a scuola i figli e al ritorno non avrebbe più trovato in casa la moglie, i cui abiti erano ripiegati a terra nel cortile. Aveva poi insinuato, senza alcun fondamento, che la donna le aveva manifestato il timore che rapissero lei o i figlioletti e che fosse stata dunque sequestrata da un comune conoscente, oppure si fosse allontanata perché si vergognava delle proprie “relazioni”.
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Elena Ceste, la mamma di quattro bambini sparita il 24 gennaio a Costigliole d'Asti, era probabilmente già morta quando il suo corpo è stato abbandonato sotto i cespugli in un canale di scolo del fiume Tanaro, dov’è stato scoperto giorno 18 da alcuni operai che ripulivano la zona. L’identificazione della donna è avvenuta attraverso l’esame del dna sui resti del corpo, che era ormai decomposto. Diventa ora più difficile, per una serie di motivi, la posizione del marito Michele Buoninconti: sebbene non sia indagato, infatti, non ha mai convinto il racconto che ha fatto della misteriosa sparizione, con modalità del tutto inverosimili.
Il marito, vigile del fuoco ad Alba, ha sempre sostenuto l’ipotesi di un allontanamento volontario o di un sequestro della donna, a opera di alcuno che Elena temeva e comunque da parte di uno spasimante. La notte prima della sparizione, la donna avrebbe avuto una crisi. In mattinata Michele accompagnò i figli a scuola e al rientro in casa non trovò più la moglie, ma solo i suoi occhiali da vista e gli abiti sparsi stranamente nel cortile antistante il cancello. Ma questo è il racconto del vigile del fuoco, che non consentito adeguate verifiche.
Senza troppo arzigogolare, è irreale che Elena si fosse svestita e avesse percorso nuda chissà quale distanza, ora chiarita dal ritrovamento del cadavere (di uno-due chilometri), senza che alcuno la vedesse. Verosimile è invece che era stata uccisa in casa, forse strangolata, e l’assassino, prima di chiuderla nel bagagliaio di un’auto e trasportarla altrove, l’aveva spogliata per renderne poi più problematico il riconoscimento nel caso in cui in futuro il suo corpo fosse stato ritrovato: il modo più efficace, secondo l’assassino, era di sbarazzarsi del cadavere nell’acqua, che com’è noto decompone appunto i corpi ma non avrebbe potuto distruggere gli abiti.
L’ipotesi del suicidio sembra da escludere anche perché una persona viva non avrebbe potuto annegare nella modesta quantità di acqua presente nel canale. Ma chi ha ucciso Elena Ceste e perché? Ora le indagini ripercorrono a ritroso i minuti di quella tragica mattinata del 24 gennaio a Costigliole d’Asti, tenuto conto che la medicina legale non potrebbe dire ormai molto attraverso gli scarni resti del corpo, ridotti praticamente allo scheletro. Tutti gli spostamenti di Michele Buoninconti erano stati già ricostruiti, ma ci sono adesso elementi in più per verificarli con puntualità.
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“Informazione tossica”, “prove fesserie”, “carta marcia”: così Paolo Liguori a Matrix, su Canale 5, ha attaccato i media che da quasi quattro mesi, dal momento del suo arresto, continuano a esercitare un linciaggio sull’imputato Massimo Giuseppe Bossetti, accusato di avere ucciso Yara Gambirasio: colpevole a tutti i costi, condannato senza che ci sia stato ancora un processo. Nell’inevitabile alterco con la collega Fiorenza Sarzanini del “Corriere della Sera”, il giornalista ha dato l’affondo: “Dovete finirla di ingerire bocconi avvelenati che vi danno gli inquirenti, di raccogliere carta marcia. Il cronista deve verificare le fonti e assumersi una responsabilità”.
Secondo Paolo Liguori, ci sono inquirenti che “lavorano adesso per coprire gli errori che hanno commesso nelle indagini”.
Il dibattito è stato preceduto da una intervista efficace di Luca Palese, conduttore di Matrix, a Marita Comi, moglie di Bossetti. Palese, senza sconti, ha rivolto domande sui punti, uno per uno, che secondo l’accusa formano la serie di “indizi” a carico del muratore, spacciati per “prove” ma risultati chiaramente fantastiche congetture su comportamenti di vita normale: come il fatto che Bossetti passava spesso dalle parti della palestra davanti alla quale sparì Yara, che l'uomo si sottoponeva a qualche lampada solare in un vicino centro estetico, che possedeva due o tre telefonini, che aveva comprato un metro cubo di sabbia, che la moglie avesse due amanti e via dicendo.
Da Matrix è emerso praticamente che il linciaggio mediatico ai familiari di Bossetti, messo in luce su ildelitto.it da Gaetano Alemanni, sta risultando artificioso e strumentale: carta straccia accanto all’unico elemento davvero indiziario, che riguarda il dna trovato sugli abiti di Yara dopo il rinvenimento del cadavere, che apparterrebbe all’imputato. Sembra un’appendice alla trama denunciata nel mio libro “Yara, orrori e depistaggi”.
Salvo Bella
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Il procedimento a carico di Massimo Giuseppe Bossetti per l’uccisione della piccola Yara Gambirasio viene accompagnato da un parallelo processo mediatico che ha esposto a gravi pericoli familiari e parenti dell’indagato: la sorella gemella Letizia Laura Bossetti è stata aggredita due volte da malintenzionati che non avevano tollerato le sue espressioni di conforto nei confronti del fratello; la madre Ester Arzuffi subisce in casa vessazioni da parte di sconosciuti; la moglie Marita Comi è perseguitata da illazioni sulla sua vita privata che turbano la serenità propria e dei tre figlioletti.
Massimo Giuseppe Bossetti è accusato di un delitto che ha suscitato giustamente raccapriccio e allarme nell’opinione pubblica e impegnato senza risparmio autorità e polizia giudiziaria in un lavoro difficilissimo e scrupoloso. Respinge, com’è noto, le accuse e sostiene di non avere mai conosciuto Yara e di non esserne l’assassino; ma il suo dna risulta identico a quello trovato sui leggins e sugli slip di Yara dopo il ritrovamento del suo corpo privo di vita nascosto in un campo abbandonato del Bergamasco. Al momento si susseguono schermaglie fra accusa e difesa, mentre l’imputato resta in carcere, essendogli stata negata più volte la libertà.
La pista del dna ha tratto origine dal fatto che è risultato del defunto autista Giuseppe Guerinoni e quindi di Massimo Giuseppe Bossetti, che ne sarebbe dunque figlio, anziché del padre legittimo del quale porta il cognome insieme con la sorella gemella. Ma Ester Arzuffi insiste nel dire di non avere mai avuto alcun rapporto col Guerinoni, pur avendolo conosciuto.
L’esigenza di una migliore configurazione del quadro che avrebbe potuto indurre Bossetti a tentare violenza su una ragazza ha spinto anche a investigare opportunamente sulla sua situazione familiare e in particolar modo sulla vita della moglie, sicché i media le hanno attribuito anche amanti veri o presunti.
La divulgazione di notizie così estremamente delicate ha avuto conseguenze nefaste sulla serenità delle donne indebitamente coinvolte, assillate da cronisti, fotografi e teleoperatori amanti del pettegolezzo; insomma sottoposte a un linciaggio incivile e illegittimo, tanto da determinare il tempestivo intervento del Garante per la protezione della privacy, che il 22 settembre ha emesso un provvedimento di blocco e prescrizione nei confronti di organi di informazione per la diffusione di dati personali eccedenti tratti da un interrogatorio del Bossetti in carcere (l’atto è stato pubblicato il 7 ottobre sulla Gazzetta Ufficiale n. 233).
I sentimenti di astio che si sono determinati in persone malintenzionate nei confronti delle donne hanno sortito già anche atti violenti, che potrebbero avere conseguenze scellerate anche sul procedimento in corso per omicidio: il Bossetti, infatti, pur in cella, ascolta le tv e la consapevolezza dello stato grave di sofferenza ingiusta indotto da media e da sconosciuti nei suoi familiari potrebbe portarlo ad assumere, allo scopo di liberarli dall’assedio, posizioni artefatte.
Bossetti è solo la punta di un iceberg: è infatti malamente diffusa la prassi, da parte di taluni mezzi di informazione, di invadere la sfera privata più sensibile di quei soggetti che a qualsiasi titolo, anche marginalmente, entrano in una indagine. Ancora una volta si presentano dunque il problema della sistematica fuga di notizie coperte dal segreto istruttorio e l’esigenza di aprire, come in questo caso a Bergamo, procedimenti per scoprire i responsabili.
Gaetano Alemanni
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Può sembrare non condivisibile la richiesta di grazia che Adriano Celentano ha avanzato a favore del fotografo Fabrizio Corona, un ragazzo che, come scrive il big della canzone, “nel male ha agito bene”. A leggere attentamente dietro questa motivazione semplice e persino apparentemente banale c’è però la consapevolezza che Corona, in carcere a scontare una pesante pena, finisce col pagare per uno scellerato meccanismo che scatta spesso in Italia per spazzare qualsiasi soggetto scomodo.
Sarà che la difesa, nelle vicende processuali, non è stata all’altezza, ma c’è anche la sensazione che la conclusione giudiziaria fosse stata già scritta prima ancora che l’imputato tentasse di far valere qualche ragione a sua discolpa. A nessuno è sfuggito che Fabrizio Corona, con la sua aitanza, appariva a parte dell’opinione pubblica come un giovane discolo. Per tanti anni a conoscerlo erano stati solo gli addetti ai lavori, cioè altri fotografi, giornalisti e personaggi dello spettacolo dei quali carpiva immagini stuzzicanti o che, stando al gioco, segretamente posavano per finire in copertina sui settimanali di pettegolezzi e farsi in tal modo pubblicità; a volte, persino, anche pagati solo per questo.
Non è che Corona abbia perduto a un certo punto la testa e da tecnico e artista di immagini si sia trasformato in un volgare estortore, ma gli è solo accaduto di avere offerto ad alcuno delle foto che lo ritraevano e non avendo ottenuto la disponibilità a comprarle ha fatto presente che le avrebbe ceduto a qualche giornale. In questa prassi, da sempre diffusa, s’è voluto cogliere il senso della minaccia di un male ingiusto per ricavare un profitto illecito. Va bene che la giurisprudenza si evolva, ma è abnome che l’attività commerciale del fotografo possa essere equiparata a quella del malavitoso che annuncia candelotti esplosivi dietro la saracinesca del negozio al commerciante che non vuol pagare il pizzo. E sorprende che questa lettura sia intervenuta quando a sentirsi “molestati” sono stati potenti politici.
Siamo ormai all’inventadelitti per spazzare i soggetti scomodi. Se ne ricava una prova adesso anche dalla vicenda incredibile di Luigi De Magistris, fatto fuori, per sottrargli i procedimenti e insabbiarli, quando da magistrato inquisiva a Catanzaro potenti fra Basilicata, Calabria e Roma, arrivando anche a indagare sul ministro della Giustizia. Si mossero subito i massimi sistemi. De Magistris proprio per quelle vicende è stato condannato in primo grado a Roma a un anno e tre mesi: abuso d’ufficio per avere intercettato Romano Prodi, Francesco Rutelli, Antonio Gentile, Clemente Mastella, Giancarlo Pittelli, Marco Minniti e Sandro Gozzi senza chiedere preventivamente l’autorizzazione alle Camere. Scomodo da pm e ora anche da sindaco, tant’è che la condanna, vista la sospensione della pena, è valsa solo a farlo sospendere dalla carica, De Magistris non incassa però passivamente gli effetti di una prevedibile “rivincita” da parte di coloro che s’erano sentiti vittime di lesa maestà.
Salvo Bella
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Gli infiltrati al palazzo di giustizia di Palermo sono riapparsi in modo inquietante lasciando una lettera di minacce sul tavolo del procuratore generale Roberto Scarpinato. Il magistrato ha trovato il messaggio all’inizio di settembre al rientro dalle ferie e sulla vicenda indaga la procura della repubblica di Caltanissetta.
Il palazzo di giustizia di Palermo, com’è noto, continua a essere impegnato in scottanti procedimenti sui più importanti misteri degli ultimi decenni, che vedono spesso implicati anche apparati dello Stato. Molti magistrati sono nel mirino della mafia, che tenta di fermare col sangue indagini e processi che la politica non riesce più a bloccare.
La lettera al procuratore generale sembra un’appendice, non meno preoccupante, al caso del pm Nino Di Matteo, di cui Totò Riina avrebbe ordinato dal carcere l’uccisione: sono innumerevoli i biglietti di minacce che sono stati recapitati a Di Matteo direttamente nel suo ufficio, a casa e sui tavoli di colleghi. Non gli vengono perdonate le indagini sulla trattativa Stato-mafia.
Scarpinato, col sostituto procuratore Luigi Patronaggio, in vista del processo d’appello al generale Mario Mori e al colonnello Mauro Obinu, assolti in primo grado dall'accusa di aver favorito la latitanza di Bernardo Provenzano, avrebbe scandagliato nei misteri dei servizi segreti deviati e all'udienza del 26 settembre dovrebbe essere chiesta la riapertura dell'istruttoria dibattimentale; non è da escludere che per questo gli vogliano tappare la bocca.
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