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Gruppo Edicom

 

direttore Salvo Bella         
       
 

la siciliaLa bufera che ha colpito “La Sicilia” ha un codazzo di fandonie che - ben oltre le risultanze della magistratura - vorrebbe infangare un giornalismo catanese storicamente in prima linea nella lotta contro la mafia, un mestiere che per decenni ho onorato insieme con altri combattivi colleghi senza lasciarci intimidire da reazioni violente della malavita organizzata. Scomparsi ormai gli altri, incombe a me, unico sopravvissuto, il dovere di ricordare il valore morale e professionale di cronisti che abbiamo lavorato a testa alta, senza mai chinare il capo, e svolto un lavoro anticrimine pari o in alcuni casi addirittura superiore a quello dello Stato.

La duplice veste di Mario Ciancio di direttore ed editore del giornale può avere comportato conflitti di interesse di vario genere, che non hanno però avuto, sostanzialmente, riflessi nell’esercizio della cronaca nera; e non ne hanno avuto nemmeno i molteplici affari imprenditoriali da anni oggetto di indagini da parte della magistratura.

Improvvisati soloni, erano appena nati

È penoso leggere oggi improvvisati soloni secondo i quali sui giornali di Ciancio non sarebbe mai apparsa la parola “mafia”. Ad affermarlo, c’è da sperare in buona fede, sono colleghi che quando a Catania erano in corso guerre di mafia erano appena nati o non leggevano comunque il giornale e non sapevano cosa accadeva e ancor meno dell’attività puntuale - e per loro estremamente pericolosa - che svolgevano i cronisti, spesso andando oltre le indagini di magistratura e polizia giudiziaria.

 

Già all’inizio degli anni settanta a “Espresso Sera”, giornale del pomeriggio controllato da Mario Ciancio, su input di Giuseppe Fava avevo svolto sulla mafia inchieste che analizzavano il fenomeno non solo a Corleone o Villalba ma anche nella Sicilia orientale. Era stato semmai il procuratore generale di Catania Ugo Buscemi a negare che la mafia esistesse nel capoluogo etneo; ma in una pagina gli avevo contrapposto la mia intervista esclusiva a quello di Palermo,  Carlo Alliney, il quale confermava il contrario.

Una miniera di conoscenza sul crimine a Catania

Le collezioni dei giornali, reperibili nelle biblioteche pubbliche di Catania, sono una miniera di conoscenza interminabile su come quotidianamente informavamo in modo puntuale e approfondito su delitti (fino a 130 l’anno nella provincia) e arresti, tipologia delle persone implicate, esistenza di nessi e contrapposizioni. Con Tony Barlesi, Antonio Grioli e Rodolfo Laudani formavo a “La Sicilia” una squadra pronta a intervenire ventiquattro ore su ventiquattro dove ci trasportavano gli eventi; ed eravamo formati al rigore di verità e completezza pretesi dall’impareggiabile Salvatore Nicolosi, capocronista del quale eravamo orgogliosi.

Sui fatti criminali più eclatanti e di maggiore allarme sociale, senza dover ricordare la mia inchiesta sulla mafia del 1987, già nel 1979 avevo rivelato, con uno scoop, i primi nomi degli autori della strage di mafia al casello autostradale di San Gregorio e altrettanto si può leggere nei miei servizi sulla strage del 1982 in via dell’Iris a San Giorgio. Nel 1990 ai primi attentati contro i magazzini Standa - culminati nella distruzione della filiale di via Etnea, la più grande d’Italia - svelai i retroscena dell’attacco da parte di Cosa Nostra. L’anno successivo nell’occuparmi della distruzione del Sigros (deposito regionale La Rinascente) a Piano Tavola rivelai subito che a operare era stato un commando di mafiosi capeggiati da Giuseppe Pulvirenti “’u malpassotu”.

Sono minime esemplificazioni di cronaca non assoggettata ad alcuno, libera e senza censure di alcun genere. Quanto fosse coraggiosa lo dicono i proiettili che ricevevo, le telefonate anonime, i danneggiamenti gravi subìti. Sono stato, mio malgrado, il cronista più minacciato in Sicilia, non certo da Mario Ciancio ma dalla mafia, tanto da ritrovarmi con la casa piantonata da carabinieri e polizia e spesso scortato.

Torbidi depistaggi sull’omicidio Fava

Un caso a sé costuiscono i torbidi depistaggi che ci furono sull’uccisione di Giuseppe Fava, a cominciare dalla sera del 5 gennaio 1984, quando con un curioso stratagemma mi fu sottratta la titolarità dei servizi sul delitto, come se alcuno fosse preinformato che sarebbe stato commesso poco prima delle ore 22. Depistaggi e tentativi di ostacolare il lavoro degli investigatori non furono però opera di cronisti di nera de “La Sicilia”, ma di tuttologi fedelissimi pronti a scendere in campo ogni qualvolta ci fosse da assecondare interessi che andavano ben oltre la cronaca.

Speculazione politica arbitraria e fasulla

Ricostruire la verità sul nostro lavoro corretto e indipendente di cronisti è una cosa, entrare nelle questioni imprenditoriali dell’editore è ben altra. Si frammischia infatti all’intera vicenda di Ciancio una speculazione politica di cattivo gusto, perché del tutto arbitraria e fasulla, con soggetti i quali scrivono che l’accusa “moralmente e professionalmente si allarga da Mario Ciancio a chi, sotto la sua direzione, ha avallato una linea editoriale fatta di silenzi, mistificazioni, di distinguo e di palesi omissioni. Lo hanno fatto vice direttori (tranne Nino Milazzo che venne cacciato), i capocronista, e molti giornalisti che hanno scritto pezzi, fatto titoli, tagliato e cucito con cura certosina un giornalismo compatibile con gli interessi di Cosa nostra”. Rileva che nel 1987 proprio Nino Milazzo, appena nominato vice direttore, mi costrinse a chiudere anticipatamente in fretta e furia la mia inchiesta in corso sulla mafia. Mai ha spiegato perché. Venne cacciato in effetti dal giornale, ma solo in quanto la linea politica mutava da filo craxiana a filo repubblicana.

Passare perciò per paladini dell’anticrimine chi in redazione era per alcuni aspetti assoggettato a imposizioni oscure del direttore, al punto da fare rischiare la vita a un collega, è un polverone che indirettamente fa perdere di vista l’attività importantissima di una indagine con la quale la magistratura catanese pone fine a uno strapotere che al momento risulta essere stato illegittimo, al di sopra del potere stesso di Cosa Nostra: aver colpito al livello più alto dei colletti bianchi è appunto motivo indiscutibile di elogio per i carabinieri e per i magistrati.

Spine al fianco dell’editore, uscimmo dal giornale

Chi pesca nel torbido può ricordare che nel 1983  “La Sicilia” nascose per diversi giorni la notizia del provvedimento di cattura per il cavaliere del lavoro Carmelo Costanzo. Ma dovrebbe sapere anche che a tale insabbiamento si erano opposti energicamente il condirettore Piero Corigliano e il capocronista Salvatore Nicolosi, entrambi poi condannati a pagare per la loro spina dorsale: il primo licenziato, senza che fosse necessario, per raggiunti limiti di età; l’altro costretto a dimettersi mettendolo in subordine a un semianalfabeta, la cui preparazione era tale da avermi persino obbligato a mettere un accento su un “fa” in un titolo a nove colonne. A quel punto era evidente che anch’io, avuta consapevolezza dei mali che venivano dall’interno, dovessi prima buttare la penna e poi dimettermi, come feci senza avviso.

Quella squadra di cronisti di nera, per vari motivi estinta, era la spina al fianco di Mario Ciancio. Ormai non c’è più. Attraverso i nostri articoli, tuttavia, nella storia di Catania è entrata già cinquant’anni fa la parola “mafia”, con tutti i suoi contenuti; e da allora, grazie a noi, nessuno potrà cancellarla. Gli improvvisati storici vadano a rileggersi quelle pagine, che vanto con orgoglio.