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Gruppo Edicom

 

direttore Salvo Bella         
       
 

pietro sarchièFavoreggamento, ricettazione e riciclaggio sono i reati dei quali è chiamato a rispondere a Macerata il catanese Santo Seminara, in un secondo processo per la vile uccisione del pescivendolo Pietro Sarchiè. Altri due catanesi, Giuseppe Farina e il figlio Salvatore, sono stati condannati all’ergastolo per l’omicidio, commesso per sbarazzarsi di un lavoratore e sottrargli i clienti. “Dovranno restare in carcere – grida Jennifer, figlia della vittima – fino all’ultimo giorno”.

Pietro Sarchiè sparì misteriosamente la mattina del 18 giugno 2014 con il suo furgone, mentre compiva il giro quotidiano nell’entroterra per servire i clienti. Le sue ricerche furono difficoltose, svolte giorno e notte dai familiari dell’uomo, mentre gli inquirenti erano orientati sull’ipotesi, rivelatasi suggestiva, di un allontamento volontario. L’uomo fu poi ritrovato cadavere dopo una ventina di giorni, ucciso a colpi di pistola e sepolto in un terreno di campagna: fu la morte nel cuore per la moglie e i due figli.

Magistrato e carabinieri si trovarono a dover dipanare un caso criminale molto difficile, poiché scandagliando nella vita del pescivendolo non si trovò nulla che avesse potuto scatenare nei suoi confronti una vendetta: era una persona stimatissima, dedita esclusivamente alla famiglia e al lavoro, che lo impegnava da decenni in un’attività molto dura, ma svolta sempre con onestà, rispetto del prossimo e grande scrupolo. Perché allora avevano ucciso Pietro? Gli inquirenti riuscirono a raccogliere prove su atti preparatori compiuti da altri due pescivendoli, i due Farina, per sbarazzarsi dell’uomo: lo avevano seguito per giorni nei suoi spostamenti, per cogliere il momento più propizio per bloccarlo, assassinarlo e portare via il furgone carico di pesce; e successivamente avevano curato di eliminare eventuali tracce del delitto che potessero far risalire a loro. Il furgone era stato trasportato in un capannone di un altro catanese, Santo Seminara, e quindi smantellato.

 

Al tribunale di Macerata, col rito abbreviato, il pubblico ministero aveva chiesto la condanna a vent’anni dei due Farina, ma il giudice, il 13 gennaio scorso, è stato durissimo: ergastolo per entrambi, sebbene Giuseppe Farina avesse tentato di scagionare il figlio.

Si attende ora il processo d’appello, ma intanto è in corso un secondo procedimento, che continuerà domani, per il ruolo avuto nella vicenda da Santo Seminara. Giuseppe Farina l’aveva chiamato in correità come se avesse partecipato all’omicidio, ma ha poi ritrattato e per questo, anzi, risponde ancora di calunnia. Nei confronti del Seminara si procede dunque solo per reati meno gravi, in quanto, come ha sempre sostenuto, si sarebbe limitato a mettere a disposizione il capannone avendogli chiesto il Farina di potervi ricoverare il proprio furgone e non quello di Pietro Sarchiè. La vicenda resta avvolta tuttavia nel mistero, poiché la questione del capannone era contestuale con la sparizione del pescivendolo e del suo furgone, un caso del quale le cronache si stavano occupando in quei giorni con molto rilievo.

Si ha la sensazione che non tutto sia stato sufficientemente chiarito sullo sconcertante omicidio, uno dei più obbrobriosi commessi negli ultimi decenni; e in più non si può escludere che la sentenza di primo grado possa essere riformata in meglio per gli imputati, in appello, come chiede la difesa. Ecco dunque la richiesta pressante di giustizia da parte dei familiari di Pietro Sarchiè: “Nessuno sconto. Gli assassini di mio padre devono morire in carcere”.