Questo sito utilizza cookies tecnici propri e cookies di profilazione di terze parti. Continuando la navigazione accetti.    MAGGIORI INFORMAZIONI

 

Gruppo Edicom

 

direttore Salvo Bella         
       
 

 

manetteL’esposizione al pubblico di persone ammanettate è in Italia vietata, ma nonostante ciò è una pratica censurabile eccessivamente diffusa e la legge 479 del 1999 e il codice di procedura penale prevedono al massimo una sanzione disciplinare per chi non rispetta la norma. Gli esempi clamorosi di queste obbrobriose oscenità vanno dalla foto che nel 1983 mostrava il presentatore Enzo Tortora con i ferri ai polsi nel cortile di una caserma al filmato del 2014 con l’arresto del presunto assassino di Yara Gambirasio, Massimo Giuseppe Bossetti, fatto inginocchiare in manette davanti a una telecamera; immagini che ricordano quelle ancor più raccapriccianti degli uomini al guinzaglio nel carcere americano di Guantanamo.

Alexa RoscioliALEXA ROSCIOLI, 26 anni, è laureata in Scienze dell'investigazione all'Università dell'Aquila e laureanda in Psicologia criminologica e forense all'Università di Torino.

Le immagini e i racconti di avvenimenti di crudeltà richiamano alla memoria raffigurazioni che vivono all’interno delle popolazioni come repertorio del nostro inconscio collettivo. Spesso tendono a riaffiorare alla mente in quanto abitano dentro di noi e, come ci insegna C. G. Jung con la psicologia delle immagini, rappresentano la nostra “ombra”, ovvero quell’insieme di immagini arcaiche che fin dagli arbori della civiltà sono appartenute alla popolazioni e come tali tendono ad essere nascoste per poi riaffiorare alla coscienza, in determinate situazioni, dal nostro inconscio.

A volte il rimando a determinate visioni può suscitare crudeltà psicologiche, che non sono quella inflitta o subita direttamente, ma rappresentano una forte minaccia di fatti crudeli e che purtroppo raffigurano la realtà.

Questi sentimenti vengono enfatizzati e vivono nel terrorismo, un fenomeno politico e sociale  che dopo l’11 settembre 2001 ha raggiunto livelli esponenziali mondiali, tali da mettere in pericolo la pace nel mondo. La tendenza è di produrre immagini e visioni sempre più cruente, come uccisioni, rapimenti, condizioni di isolamento, di implorazioni rivolte ai governi che vengono diffuse per terrorizzare le popolazioni.

Un’immagine emblema è quella di Guantànamo Bay (il centro di detenzione, situato in una base navale statunitense a Cuba, è diventato simbolo di torture e maltrattamenti dopo l’11 settembre) che raffigura la soldatessa americana di 21 anni Lynndie R. England in un corridoio del Braccio A1 di Abu Ghraib mentre trascina un iracheno completamente nudo al guinzaglio. Ecco perciò l’immagine simbolo degli orrori della guerra: due esseri umani travolti dalla violenza della storia e consegnati alla memoria collettiva, una nel ruolo di torturatore e l’altro in quello di vittima, entrambi messaggeri di emozioni e cognizioni che vorremmo obliterare.

Immagini ad effetto di torture e maltrattamenti

Ma cosa accade alle persone comuni sotto la visione di situazioni così estreme? L’impatto sembra esser decisivo su di noi. RobFreer, ricercatore di Amnesty International, ha dichiarato che Guantànamo ha violato i diritti umani in quanto simbolo di torture e maltrattamenti sia fisici che psichici.

Questo cattivo e inappropriato uso di immagini da parte dei mass media va fustigato in quanto viola il principio di dignità umana, un diritto imprescindibile nei confronti di qualsiasi essere. Eventi così forti e d’impatto dovrebbero esser tenuti sotto controllo attraverso la buona informazione, tesa al racconto degli avvenimenti ed attenta alla diffusione di immagini che possono essere pericolose in quanto andrebbero ad accrescere la tensione sociale, ingenerando sentimenti di odio e di vendetta verso altre popolazioni. Il compito fondamentale nonché imprescindibile, in quanto legato alla professione giornalistica, è di informare l’opinione pubblica di quanto accade nel mondo, evitando di enfatizzare e sottolineare l’operato di determinate azioni tese a seminare il terrore e l’insicurezza generale.

In un Paese come l’Italia, che con la sua Carta costituzionale protegge i diritti della persona, la dignità coincide con l’attributo primo e irrinunciabile della persona. Nonostante i numerosi impegni presi, in Italia manca ancora oggi il reato di tortura. La Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 1984, ratificata nel nostro paese nel 1988, prevede che ogni Stato si adoperi per perseguire penalmente quegli atti di tortura delineati all’art. 1 della Convenzione stessa. Sono passati oltre 25 anni, ma in Italia il reato di tortura continua ad essere un miraggio. La dignità umana è un concetto che riassume un principio personalista del nostro ordinamento, e ciò implica assoluto rispetto di per sé. Il principio etico di dignità umana, a livello nazionale e internazionale, è sancito dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo nel 1948. È essenziale che il reato di tortura venga introdotto nel codice penale italiano quanto prima e nel massimo rispetto degli standard internazionali, garantendo in questo modo la copertura nazionale della violazione e contribuendo alla prevenzione della tortura e dei maltrattamenti.

Dalle immagini di torture a quelle delle manette il passo è breve e la loro divulgazione continua a essere favorita da norme che pur vietandola non prevedono alcuna sanzione. A determinare la spettacolarizzazione dell’arresto sono le esigenze televisive di suscitare emozioni forti per mantenere alti gli indici di ascolto, con trasposizioni che sono necessariamente una finzione della realtà e spesso puntano anche a orientare l’opinione pubblica sulle tesi, colpevoliste, degli stessi ambienti che mettono a disposizione foto e filmati. Il caso Bossetti dimostra che tali divulgazioni abusive avvengono proprio in tal modo: quel filmato, pur realizzato da un maresciallo dei carabinieri per ragioni di servizio, fu infatti fornito nella stessa giornata dell’arresto alla trasmissione televisiva Quarto Grado, senza che ci fossero esigenze dell’informazione oppure interessi di giustizia.

Il Codice deontologico ricorda ai giornalisti che “le persone non possono essere presentate con ferri o manette ai polsi”; ma sembra che tutti abbiano dimenticato di uniformarsi a questo principio il loro comportamento.