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direttore Salvo Bella         
       
 

borsellino

Nell’anniversario dell’uccisione di Paolo Borsellino in via D’Amelio a Palermo (19 luglio 1992) si profilano scenari inquietanti per la giustizia italiana e la lotta alla mafia, con annunciate riforme che legherebbero le mani a magistrati inquirenti e giudici.
Sono notevoli le polemiche suscitate dall’ipotesi, avanzata dal ministro, di abolire il reato di concorso esterno in associazione mafiosa; e suscita perplessità la vaga assicurazione della presidente Meloni, essendosi limitata a dire che non si tratta di una priorità per il governo. Per quel reato è stato possibile condannare colletti bianchi, politici di destra e di sinistra che pur non essendo affiliati a organizzazioni mafiose - in Sicilia, in Calabria, in Campania e in Puglia – le hanno sostenuto e coperto dall’alto delle loro posizioni, in cambio di voti e altre utilità. Ciò è stato possibile grazie al coraggio e al lavoro di magistrati di elevato spessore morale e giuridico, attorno ai quali giustamente si è sviluppato in questi ultimi anni un consenso popolare sempre più vasto.
I risultati processuali confermano l’importanza di quella norma penale, che anziché abolita andrebbe semmai rimodulata per ampliare i limiti del cosiddetto concorso esterno. Ma al consenso popolare verso i magistrati che lottano la mafia in tutte le sue forme si contrappone da sempre lo spauracchio della politica, che non tollera di essere insidiata da indagini penetranti e aspira a introdurre norme – o modificarne – per essere del tutto intoccabile. In questa direzione vanno attualmente alcune novità di una annunciata riforma della giustizia: l’impossibilità di andare in appello in caso di assoluzione in primo grado, la limitazione delle intercettazioni telefoniche e dell’uso degli strumenti informatici più attuali; e via dicendo.
Onorare a Palermo, in questo scenario, Paolo Borsellino da parte della politica ha dunque dell’osceno.