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Gruppo Edicom

 

direttore Salvo Bella         
       
 

bavaglioC’è un nuovo bavaglio, una sfida al diritto del pubblico di vedere e sentire il processo di secondo grado a Massimo Bossetti per la morte oscura di Yara Gambirasio. Telecamere, microfoni e macchine fotografiche saranno proibite in aula. Questa decisione oscurantista della Corte d’Assise d’appello di Brescia arriva a una settimana dal processo nel quale si deciderà la sorte di un uomo che è condannato all’ergastolo ma potrebbe essere il capo espiatorio di una delle più misteriose vicende giudiziarie degli ultimi cinquant’anni: non c’è, secondo i giudici, interesse pubblico.

 

La pubblicità del processo, garantita dall’ordinamento giudiziario, è stata assicurata storicamente in Italia con le dirette televisive, fra le quali quelle di Tangentopoli, con udienze nelle quali sfilavano testimoni importanti, senza che magistrati temessero alcuna possibilità di turbamento. Ma il caso Gambirasio si è appalesato sin dalla sparizione della ragazza di Brembate uno dei più inquietanti: 1) per talune modalità curiose di svolgimento delle indagini; 2) per le modalità spettacolari e insulse dell’arresto di Bossetti in ginocchio; 3) per la negata remissione in libertà di un imputato che finora è da ritenersi innocente; 4) per il rifiuto di una nuova perizia sul dna attraverso il quale s’è incastrato questo muratore incensurato.

La motivazione fornita a Brescia è non solo anacronistica e allarmante, ma menoma gravemente il principio della pubblicità processuale, che da decenni ormai non può più essere limitata alla presenza di un numero contingentato di persone né affidata alla memoria e alle annotazioni su taccuino dei cronisti, ma richiede anche la possibilità di documentazione precisa delle parole e delle espressioni di chi le pronuncia.

La decisione, presa per ordinanza, non è suscettibile di impugnazione. Da cittadino e giornalista, tuttavia, non la riconosco, è illegittima e tracotante, non può essere considerata come presa in nome del popolo italiano. Vorrei andare perciò al processo il 30 giugno con una piccola cinepresa, non con un’arma, come è stato consentito più volte in Italia in aule di tribunali, con conseguenze tragiche. Se la giustizia ha paura delle telecamere più delle pallottole siamo fritti.