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- Scritto da Salvo Bella
A otto anni dall’uccisione di Yara Gambirasio, è definitiva la sconfitta della difesa di Massimo Bossetti: è lui, come confermato dalla Cassazione, l’assassino e dovrà scontare la condanna all’ergastolo. Gli innumerevoli “punti critici” sulle conclusioni dell’accusa, le eccezioni difensive e le proteste di innocenza dell’imputato non hanno per la Suprema Corte, perciò, alcun valore: il ricorso degli avvocati Salvagni e Camporini, infatti, non è stato respinto, ma addirittura ritenuto inammissibile per manifesta infondatezza. Non ci sono perizie da ripetere sul dna trovato sugli slip di Yara: è di Bossetti, che ha potuto difendersi ampiamente nel corso delle indagini preliminari e in due processi, entrambi conclusisi con sentenza di colpevolezza.
La requisitoria del sostituto pg era stata, nel pomeriggio, durissima più del previsto e aveva alquanto frastornato gli innocentisti che l'hanno ascoltata, molti giunti a Roma nella mattinata dalla Lombardia. Due di loro avevano tenuto steso davanti al palazzo della Cassaziolne uno striscione con le parole "Bossetti innocente": una teatrata che non serviva per nulla a Bossetti, come altre inscenate in questi anni da convinti assertori dell'innocenza ma soprattutto da soggetti con precedenti penali interessati a gridare contro la malagiustizia.
Yara era sparita misteriosamente la sera del 26 novembre 2010 a Brembate di Sopra all’uscita da un centro sportivo. Le indagini iniziali furono parecchio tormentate e forse inquinate da depistaggi, tanto che per mesi si cercò la ragazza come se fosse viva, vittima di un sequestro per vendetta o a scopo di estorsione.
La ricostruzione dei momenti successivi alla sparizione indirizzò a un centro commerciale in costruzione a Mapello, distante una decina di chilometri dalla palestra di Brembate. Lì lavorava il marocchino Mohammed Fikri, che fu il primo sospettato. L’errata traduzione di una sua conversazione telefonica, intercettata dagli inquirenti, portò il 5 dicembre 2010 al suo arresto con modalità clamorose, mentr’era in navigazione su un traghetto che da Genova lo stava portando a Tangeri.
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- Scritto da Salvo Bella
Il processo in Cassazione, che si celebrerà venerdì, deciderà se sono stati violati i diritti dell’imputato o se debba essere definitiva la condanna di Massimo Bossetti all’ergastolo per l’uccisione di Yara Gambirasio.
L’ipotesi che il processo possa essere rifatto, dopo i primi due gradi di giudizio, appare alla vigilia alquanto improbabile, come da escludere sembra che la Suprema Corte possa annullare senza rinvio la condanna, praticamente assolvendo l’imputato. Ciò non perché, come sostengono alcuni innocentisti, i costi della vicenda giudiziaria sono stati iperbolici, soprattutto nella fase delle indagini preliminari, così da non potersi giustificare una conclusione senza colpevoli.
Leggi tutto: Bossetti in Cassazione, difesa violata o ergastolo definitivo
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- Scritto da Mario Schembari, Salvo Bella, Tommaso Accomanno
Sarà pietra tombale sull'ergastolo a Massimo Bossetti per l'uccisione di Yara Gambirasio o ad otto anni dal delitto avremo dei colpi di scena? Il 12 ottobre la Cassazione deciderà sul ricorso dell'unico imputato, le cui speranze sono aggrappate all'ipotesi che possa essere accolta la sua richiesta di ripetere gli accertamenti sul dna, a lui attribuito, che fu rinvenuto sugli slip della ragazza assassinata.
Bossetti, arrestato nel 2014 al culmine di una indagine difficilissima, si protesta innocente. Oltre alle tracce del dna, ci sono a suo carico vari indizi, che la difesa ha cercato inutilmente di smontare: nel 2016, infatti, la Corte d'Assise di Bergamo ha emesso la sentenza di condanna all'ergastolo, confermata l'anno scorso in appello a Brescia.
La procedura prevede che la Cassazione può dichiarare il ricorso inammissibile per manifesta infondatezza, oppure accoglierlo e annullare o modificare la sentenza di condanna in modo definitivo, oppure ordinare un terzo processo. Alla vigilia dell'udienza si sono riaccese sui social le polemiche fra innocentisti e colpevolisti, molti dei quali si son dato appuntamento per giorno 12 davanti al Palazzo di Giustizia di Roma.
Il caso è uno dei più dibattuti degli ultimi decenni. Su di esso sono stati scritti da giornalisti alcuni libri, due pubblicati nella collana "Il Delitto" della nostra rivista: "Yara, orrori e depistaggi" di Salvo Bella, uscito nel 2014 prima dell'arresto di Bossetti; e "Social Crime - Yara Gambirasio e Massimo Bossetti nei gruppi di Facebook" di Tommaso Accomanno, uscito quest'anno.
Il caso giudiziario visto da due scrittori
Inutili le difese in tv e per strada di Salvo Bella La vicenda di Massimo Bossetti è dal punto di vista giudiziario estremamente ordinaria: non è la prima volta, infatti, che un imputato venga riconosciuto colpevole in base a una somma di indizi e condannato all'ergastolo. Sono stato il primo, e forse l'unico, a sostenere che le iniziali indagini subito dopo la sparizione misteriosa di Yara Gambirasio furono assai criticabili, nonostante la direzione impeccabile della pm Letizia Ruggeri. A lei si deve il buon esito, quand'era ormai insperato, di una caccia all'uomo senza precedenti nella storia della criminalità in Italia. Al di là degli aspetti giuridici, l'anomalia, rilevata anche dalla Corte d'Assise d'appello di Brescia, attiene invece all'eccessiva esposizione alle tv, dove a quella giudiziaria si è sovrapposta una difesa priva di alcun beneficio per le sorti dell'imputato. Vero è che in passato non esisteva Facebook, ma il proliferare di gruppi innocentisti o colpevolisti sui social ha alimentato polemiche molto aspre nelle quali sono emersi anche improvvisati investigatori o scienziati, contrapposti come nemici da abbattere attraverso variegati "sopralluoghi" alla Sherlock Holmes oppure "perizie" su mitocondriale e compagnia bella. Che dire persino di una "marcia dei cento passi" davanti a una stazione ferroviaria per proclamare l'innocenza di un imputato? I processi di primo e secondo grado sono stati celebrati con il confronto più ampio fra accusa e difesa su tutti gli elementi, che fossero discutibili oppure no; e le schermaglie ijn aula hanno permesso a due Corti di attentamente esaminare contestazioni ed eccezioni, fino alla formazione del convincimento di colpevolezza. Le motivazioni hanno dissipato ogni perplessità su fatti e su scelte procedurali, le quali tuttavia saranno a giorni rivalutate dalla Cassazione. Le difese in tv, per strada o via Facebook sono inutili e non scriveranno quest'altra sentenza. |
Tra fronti contrapposti, qual è la verità? di Tommaso Accomanno Fino ad ora Bossetti, con le due condanne della Corte d’Assise di Bergamo (1 luglio 2016) e della Corte d’Appello di Brescia (17 luglio 2017) all’ergastolo, resta il presunto ed unico colpevole. I suoi avvocati, Claudio Salvagni e Paolo Camporini, hanno presentato il 26 settembre i “motivi aggiunti” e, anche nella Capitale, porteranno avanti la loro arringa sostenendo l’innocenza del loro assistito: tuttora e dal giorno dell’arresto (16 giugno 2014) è caldeggiata dai suoi sostenitori e reputata infondata da coloro che lo ritengono colpevole. La diatriba, come ho provato ad analizzare nel mio libro “Social Crime. Yara Gambirasio e Massimo Bossetti nei gruppi di Facebook”, pubblicato nel giugno del 2018, è sfociata appunto nel social network. Nella mia analisi, asettica e priva di qualsiasi intenzione di emissione di giudizio, ho fotografato ciò che nei gruppi e nelle pagine dedicate a vittima e presunto assassino è emerso in relazione al caso e agli sviluppi in aula. Il mio libro, nato dalla tesi di laurea magistrale che si incentrava solamente sulla presunta innocenza evincibile da determinati gruppi Facebook, è stato arricchito con sfaccettature e curiosità propugnate sul social dopo la condanna in secondo grado e lì si è fermato. Ora, anche il mio testo, in caso di assoluzione il 12 ottobre, potrebbe essere stravolto e quanto contenuto all’interno rivisitato perché facente parte di un passato errato o comunque discutibile e aprirebbe nuovi scenari. In caso di ennesima condanna, con il giudizio che diventerebbe definitivo, il materiale raccolto nel libro potrebbe solo avvalorare quanto sostenuto dai colpevolisti e abissare quanto creduto dagli innocentisti. Il processo e quindi il caso, oserei dire finalmente, volge al termine. Finalmente perché, dal mio modesto parere, si porrebbe un punto, a prescindere dall’esito, che potrebbe essere inteso come “punto e a capo”, in caso di assoluzione, e “punto e virgola”, in caso di condanna. Se Bossetti, anche in Cassazione, venisse condannato Yara potrebbe riposare in pace perché, senza se o senza ma, sarebbe acclarato il nome e cognome del suo assassino e non del presunto,perché, intendiamoci, il vero assassino fino all’emissione della sentenza potrebbe essere chiunque. Se Bossetti venisse assolto si aprirebbero nuovi scenari e nuove ipotesi che darebbero la possibilità di una “nuova vita” a Bossetti. Ciò che spero è che questo caso, procrastinato fin troppo a lungo, si chiuda riconoscendo che la prima e unica reale vittima al momento è stata una bambina di 13 anni, strappata alla vita troppo presto. |
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- Scritto da Salvo Bella
La bufera che ha colpito “La Sicilia” ha un codazzo di fandonie che - ben oltre le risultanze della magistratura - vorrebbe infangare un giornalismo catanese storicamente in prima linea nella lotta contro la mafia, un mestiere che per decenni ho onorato insieme con altri combattivi colleghi senza lasciarci intimidire da reazioni violente della malavita organizzata. Scomparsi ormai gli altri, incombe a me, unico sopravvissuto, il dovere di ricordare il valore morale e professionale di cronisti che abbiamo lavorato a testa alta, senza mai chinare il capo, e svolto un lavoro anticrimine pari o in alcuni casi addirittura superiore a quello dello Stato.
La duplice veste di Mario Ciancio di direttore ed editore del giornale può avere comportato conflitti di interesse di vario genere, che non hanno però avuto, sostanzialmente, riflessi nell’esercizio della cronaca nera; e non ne hanno avuto nemmeno i molteplici affari imprenditoriali da anni oggetto di indagini da parte della magistratura.
Improvvisati soloni, erano appena nati
È penoso leggere oggi improvvisati soloni secondo i quali sui giornali di Ciancio non sarebbe mai apparsa la parola “mafia”. Ad affermarlo, c’è da sperare in buona fede, sono colleghi che quando a Catania erano in corso guerre di mafia erano appena nati o non leggevano comunque il giornale e non sapevano cosa accadeva e ancor meno dell’attività puntuale - e per loro estremamente pericolosa - che svolgevano i cronisti, spesso andando oltre le indagini di magistratura e polizia giudiziaria.
Leggi tutto: “La Sicilia”, noi orgogliosi cronisti antimafia
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- Scritto da Salvo Bella
Il sequestro del quotidiano “La Sicilia” di Catania eseguito oggi dai carabinieri su provvedimento della magistratura è una svolta eclatante, ma per nulla curiosa, nella storia controversa di un giornale che nel bene e nel male dal 1945 ha gestito nell’isola l’informazione in condizioni di incontrastato monopolio. Negli anni novanta il potente direttore-editore, Mario Ciancio, la dava anche vinta alla mafia limitando la libertà di informazione.
Il clima che respiravamo i cronisti di nera era inquietante. Pochi minuti dopo l’uccisione di Giuseppe Fava, la sera del 5 gennaio 1984, c’erano state oscure frenesie per prendere il delitto sottogamba e avvalorare subito l’ipotesi che il giornalista fosse stato assassinato per questioni di donne. Seguirono tentativi di depistaggio senza pudore e “scoop” che avevano solo l’effetto di bruciare testimoni importanti. Ma c’era di più: una indagine dei carabinieri permise anche infatti di scoprire che Fava era stato seguito dalla sede del suo giornale al luogo dell’agguato – davanti al Teatro Stabile – da un’auto risultata di proprietà del cronista che fu incaricato di scrivere i servizi sul delitto.
Leggi tutto: Catania, il potente editore la dava vinta alla mafia
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- Scritto da Mario Schembari
VENEZIA - Il direttore della rivista online “Il delitto”, Salvo Bella, è stato interrogato dall’Anticrimine della Polizia di Stato su minacce e ingiurie a magistrati da parte di sostenitori di Massimo Bossetti, il muratore del Bergamasco condannato all’ergastolo per l’uccisione di Yara Gambirasio e in attesa del processo in Cassazione, fissato per il 12 ottobre.
Le indagini di polizia sono state disposte dalla Procura della repubblica di Venezia in un procedimento scaturito da un articolo del giornalista Salvo Bella pubblicato il 7 novembre 2017: una sorta di dossier con la raccolta di testi e immagini apparsi in gruppi e pagine di Facebook contro magistrati e in particolar modo contro il pm Letizia Ruggeri di Bergamo, alla quale, com’è noto, si devono l’identificazione e l’arresto del presunto assassino di Yara Gambirasio.
Nel corso dell’interrogatorio di Bella, sentito come persona informata sui fatti, sono stati acquisiti ulteriori documenti e nell’indagine è entrato anche il libro di un altro giornalista, “Social crime - Yara Gambirasio e Massimo Bossetti nei gruppi di Facebook” di Tommaso Accomanno, pubblicato a giugno.
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- Scritto da Super User
Un appuntato dei carabinieri, Agostino De Pasquale, 64 anni, il 13 settembre farà una sorta di marcia su Roma, a capo di una “carovana della giustizia” promossa, con molti seguaci, in varie pagine di Facebook. Entrato nell’Arma il 2 maggio 1973, De Pasquale, siciliano di Marsala, per il ministero della Difesa è arruolato dal 5 febbraio 1987. Non ha portato ancora ad alcun risultato la battaglia che ha intrapreso da anni con esposti, ricorsi e richieste di essere ricevuto dalle più alte cariche dello Stato; da qui l’in solita iniziativa della “carovana” per chiedere giustizia.
La questione ha un antefatto nel servizio che alcuni decenni fa De Pasquale svolgeva alla Banca d’Italia di Trapani. Nel corso di quella attività scoprì delle anomalie nella gestione dei servizi di sicurezza e denunciò un superiore. Da quel momento incorse in vari procedimenti disciplinari, seguiti anche da un processo, dal quale uscì assolto.
Ritenendosi in vari modi perseguitato, Agostino De Pasquale si congedò dall’Arma. A questioni concluse per lui con vittoria, chiese di essere riammesso in servizio, cosa che avvenne nel 2011. Ma, per un intreccio di norme farraginose, viene considerato in busta paga come un militare arruolato da 20 anni.
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- Scritto da Salvo Bella
C’è l’altolà di un Pm alla politica nella decisione di indagare il ministro degli Interni per aver trattenuto gli emigranti a Catania sulla nave Diciotti. Matteo Salvini ha ragione di dire che se ne impipa, essendo evidente, per la maggioranza degli italiani, che la difesa dei confini, dell’onore e della sicurezza nazionale non può essere confusa con i comportamenti delittuosi.
Il sistema giustizia è talmente sfasciato che il Procuratore della repubblica di Agrigento fa ridere quando si aggrappa all’obbligatorietà dell’azione penale, un concetto che sistematicamente viene ignorato, calpestato in modo scandaloso a uso e consumo o per ricerca di notorietà, resuscitato persino andando a contare quante volte e con chi Silvio Berlusconi fottesse a casa sua. Nei palazzi di giustizia le denunce dei cittadini restano lettera morta se non fanno notizia, non passa per la testa ad alcuno di procedere, non si dispone nemmeno una mollica di indagini.
In questa situazione l’opinione pubblica non si meraviglia più di nulla, essendo vieppiù sconcertata da un andazzo di sfascio che negli ultimi decenni non ha risparmiato, con la giustizia, istruzione, lavoro, sanità, sicurezza.
Al porto di Catania s’è potuto anche assistere al degrado scellerato dell’autorità dinanzi a ciurme di facinorosi che si sono scatenate via terra e via mare contro le forze dell’ordine. Non dubito che la magistratura competente procederà. Turba tuttavia la curiosa solerzia nei confronti del ministro Salvini, con una procedura speditissima del tutto inedita, mai attuata contro clandestini che delinquono e stuprano le donne anche tra la folla.
L’esigenza di tenere salvo il diritto va salvaguardata anche se da mettere sotto indagine ci sia un ministro; ma c’è un discrimine che il magistrato non dovrebbe mai ignorare: il buonsenso. Se viene meno, è una sconfitta.
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- Scritto da Mario Schembari
“Se non c’è un genitore non accettiamo il ragazzo”: al pronto soccorso una infermiera ha chiamato ieri a Legnano la polizia perché un ragazzo ferito era stato accompagnato dai nonni senza una delega scritta del padre o della madre. In passato il primario pediatra dell’ospedale, poi arrestato e morto suicida, abusava delle piccole pazienti ma il personale era così preso dal lavoro da non accorgersene; ora siamo di fronte allo zelo estremo di chi si avventura invece in questioni dottrinarie, venendo meno all’obbligo indiscutibile di effettuare una visita.
Edoardo F. C., dieci anni, si è presentato alle 22 accompagnato dalla nonna materna, zoppicante per un trauma con ferita riportato accidentalmente a un piede. Al triage l’infermiera richiedeva i documenti di entrambi e dopo averli ottenuti obiettava che senza la presenza di un genitore o sua delega non avrebbe potuto ammettere il ragazzo. Ne è derivata al banco una lunga discussione, con la nonna a spiegare che il nipotino le era stato affidato temporaneamente dalla madre, in quel momento oltreoceano per motivi professionali.
Dopo una decina di minuti è sopraggiunto un uomo, che frattanto era stato intento a trovare uno spazio per parcheggiare l’auto, quella stessa con la quale aveva accompagnato il ragazzo. Indicato poi come “il signore con la barba lunga”, ha fatto capire di essere il nonno; ma nessuno sapeva che invece di un poveretto ignorante era il giornalista Salvo Bella, nostro direttore. Ecco il suo racconto.
Leggi tutto: Legnano, dal primario pedofilo alla visita con la polizia
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- Scritto da Salvo Bella
Adesso anche Fido legge e si appassiona alla cronaca nera: un libro del giornalista Tommaso Accomanno sul caso di Yara Gambirasio e Massimo Bossetti ("Social Crime"), acquistato attraverso Amazon, non solo è arrivato tempestivamente, ma per non perdere tempo è stato consegnato proprio a un cane, dal quale poi è giunto al destinatario vicino di casa. Non si sa ancora come abbia fatto il quadrupede a firmare la raccomandata, che era affidata a Poste Italiane.
Il fatto straordinario è accaduto a Forio in provincia di Napoli.
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- Scritto da Salvo Bella
Sono sgualdrine, scagnozzi fanatici di qualche guru più o meno palese a minacciare chi, invece di insultare la magistratura, considera ineccepibili, rigorose e chiarissime le sentenze di condanna di Massimo Bossetti all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio. Girano, fanno comunella e rigirano, attaccano anonimamente, bloccano su Facebook con segnalazioni massive fasulle, diffondono immagini con cappi al collo invitando a uccidere, controllano telefono, abitazione e spostamenti di chi non fa da scendiletto; istigano ad impiccare ad alberi magistrati che hanno sostenuto l’accusa o hanno emesso sentenza; contattano direttamente “consigliando” di stare attenti.
Leggi tutto: Bossetti, una regia per scagnozzi fanatici e sgualdrine
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- Scritto da ildelitto
Il giornalista Salvo Bella ha presentato querela contro un avvocato, che gli avrebbe inviato ieri messaggi intimidatori dopo che un suo articolo sui processi a Massimo Bossetti, condannato all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio e ora in attesa della sentenza di Cassazione, ha fatto scaturire a Venezia un procedimento per minacce di morte a magistrati, nel quale è testimone.
L’articolo era stato pubblicato dalla nostra rivista e da pochi giorni era trapelata sulla stampa la notizia delle indagini da parte dell’autorità giudiziaria, in un crescendo di attacchi nei gruppi Facebook da parte di sostenitori dell’innocenza di Massimo Bossetti.
Bella, che per decenni si è occupato di mafia da redattore del quotidiano “La Sicilia” di Catania, continua a essere minacciato di morte dall’inizio del 2014, quando è stato pubblicato il suo libro “Yara, orrori e depistaggi”. Il caso Bossetti ha fatto registrare un’ondata di accanimenti contro molti giornalisti, come Carmelo Abbate di Panorama, il direttore del settimanale “Giallo” Andrea Biavardi, Giovanni Terzi de “Il Giornale” e Tommaso Accomanno, autore del libro “Social crime. Yara Gambirasio e Massimo Bossetti nei gruppi di Facebook”.
Solidarietà è stata espressa al direttore dalla nostra rivista, che continuerà a informare respingendo qualsiasi tentativo di imbavagliare.
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- Scritto da Salvo Bella
“Attenzione. Chi di spada ferisce di spada perisce”: non avrei immaginato che un messaggio truculento del genere potesse essere rivolto a un giornalista da un avvocato che difende Massimo Bossetti, condannato finora all’ergastolo per l’uccisione di Yara Gambirasio. Eppure ho avuto la ventura di riceverlo la notte scorsa dall’avv. Claudio Salvagni: una chicca, una perla; si aggiunge infatti alla rievocazione della calibro 38 che nel 2015 il legale aveva voglia di usare contro la criminologa Roberta Bruzzone e i miei colleghi Andrea Biavardi, direttore del settimanale “Giallo”, e Giovanni Terzi de “Il Giornale”.
Sono innumerevoli gli attacchi contro chi osa non sostenere l’innocenza di Massimo Bossetti: un fenomeno che in Italia non era mai accaduto per altri casi, tanto da finire oggetto di studio di Tommaso Accomanno nel libro “Social crime. Yara Gambirasio e Massimo Bossetti nei gruppi di Facebook”.
Oltre ogni limite della decenza
Il 7 ottobre 2017 aveva stupito che, incurante delle tensioni che sarebbero potute scaturite contro i Corpi giudiziari, l’avv. Claudio Salvagni davanti alla stazione di Bergamo si fosse messo in testa a un corteo che invocava “Bossetti libero”, gridando al megafono contro "le ingiustizie processuali subite dal carpentiere di Mapello". Più sorprendente ancora è stato il fatto che ideatore della manifestazione era notoriamente un pregiudicato, in un clima che su Facebook ha fatto registrare anche minacce di morte al sostituto procuratore Letizia Ruggeri e alla presidente della Corte d’Assise di Bergamo Antonella Bertoja, nonché al presidente della Corte d’Assise d’appello di Brescia Enrico Fischetti.
Il giornalista, testimone volontario o involontario di fatti appresi nell’esercizio della professione, ha non solo il diritto ma anche l’obbligo di riferirne puntualmente al pubblico esprimendo le proprie considerazioni. Che ciò possa dispiacere all’avv. Salvagni è immaginabile; che egli invece mi annunci morte è ben oltre qualsiasi limite della decenza.
Il messaggio testuale “Si dedichi alle cose belle della vita Se sa cosa sono Consiglio spassionato Le ho detto sto tropo penso salvo bella Addio” ha una carica intimidatoria sconcertante in coincidenza con evoluzioni di procedimenti penali in corso nei quali, come da indiscrezioni trapelate in questi giorni, sono coinvolto come persona informata sui fatti; guarda caso proprio a carico di soggetti con i quali il legale ha manifestato a Bergamo contro presunte ingiustizie processuali: uno show a dir poco di pessimo gusto, che aveva ben chiara l’aria della crociata contro le istituzioni, dalla parte di chi delinque anziché dello Stato.
Fra non molto il processo in Cassazione dirà delle sentenze di condanna di Bossetti all’ergastolo. Intanto però l’avv. Salvagni chiude il cerchio aggiungendo alla calibro 38 la spada, pensando di riuscire con le intimidazioni là dove ha fallito non avendo evitato l’ergastolo al presunto assassino di Yara Gambirasio.
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- Scritto da Mario Schembari
Il giornalista Tommaso Accomanno è finito al centro di un’ondata di intimidazioni per il suo libro “Social crime. Yara Gambirasio e Massimo Bossetti nei gruppi di Facebook”. A pochi giorni dalla pubblicazione, sedicenti innocentisti stanno attaccando l’autore, esercitando pressioni in pubblico e in privato anche per ritirare il libro e modificarne i contenuti. “Sono sereno - commenta Accomanno - perché ho compiuto uno studio e offerto la più ampia e corretta informazione”.
Il libro - che sarà presentato sabato alle 17 all’Auditorium di Treviglio in provincia di Bergamo - è, con alcuni aggiornamenti, la tesi di laurea discussa dall’autore all’Università La Sapienza di Roma e consiste in uno studio accurato sull’evoluzione di metodi e mezzi dell’informazione in Italia, vista attraverso il caso Gambirasio-Bossetti. Riporta anche fedelmente ampie dichiarazioni raccolte da Accomanno attraverso interviste concessegli da amministratori di gruppi innocentisti e colpevolisti nei quali si era iscritto alla luce del sole con questo scopo dichiarato.
Alla casa editrice Gruppo Edicom si dicono “stupìti di alcune affermazioni diffamatorie e intimidatrici per il libro di Tommaso Accomanno”. In un post è stato scritto che il libro avrebbe “lo scopo di lucrare su una tragedia in corso”. In una nota l’editore replica: “Non meritano alcuna considerazione questi insulti di persone che non hanno nemmeno letto il libro e non sanno di che parlano, altrimenti non potrebbero che esprimere grande apprezzamento per il lavoro sereno di documentazione che abbiamo offerto. Alcune delle 200 pagine, in gran parte analitiche e statistiche, sono dedicate a minacce e insulti rivolti a magistrati da sedicenti innocentisti, fatti per i quali sono in corso tuttora procedimenti penali per minacce a corpi giudiziari; per questo gli interessati dicono no al libro, adducendo pretestuosamente che le interviste non andassero pubblicate. Respingiamo ogni tentativo di mettere il bavaglio e tuteleremo in ogni sede giudiziaria il diritto all’informazione”.
Non è la prima volta che un libro sul caso criminale di Brembate suscita aspre polemiche. Un altro giornalista, Salvo Bella, continua a essere minacciato per il suo libro “Yara, orrori e depistaggi”, pubblicato dallo stesso editore nel febbraio 2014, alcuni mesi prima dell’arresto di Massimo Bossetti.
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